“Mi consegnano la prima bottiglia di Ora da Re e subito le memoro, le parole di Santa Caterina da Siena. Scenda in campo il vino del mio privilegio e mostri con orgoglio le sue insegne.”

(Luigi Veronelli)


Questa è una storia vera. 

Anno Domini 1932. Siamo in Sicilia, in provincia di Ragusa, nel comune di Chiaromonte Gulfi, in contrada Mazzaronello. un latifondo di 1.300 ettari dotato di una terra povera dove si coltivavano bene la vite e l’olivo.

Qui, nel Feudo della famiglia Jacono della Motta, antenati spagnoli, il vino si faceva con naturalezza ed istinto da sempre, con i vigneti coltivati ad alberello, metodo antichissimo ereditato dalle colonie greche, quindi piante basse, con pochi tralci e poche gemme a fruttificare; produzioni limitate, al massimo 30 quintali per ettaro, con le piante che producevano poco più di mezzo chilo di uva in cui era concentrato un vino dal colore rosso fuoco, intensissimo, alcolico e longevo. Una longevità che veniva ampliata con aggiunta al vino di mosto cotto.

Lo si fece così, anche nell’annata 1932, caratterizzata da una vendemmia straordinaria; un’annata particolare, perché fu l’ultima ad essere vinificata in quanto, venendo a mancare il proprietario Nicolò, il vigneto fu espiantato definitivamente in favore di colture più redditizie. 

Restarono le botti contenenti il vino, in una cantina parzialmente interrata, che assorbiva una luce particolare a queste latitudini ed una calura estiva, che procurava lentamente quel processo di maderizzazione, tipico dei vini fortificati, quali il Marsala, lo Sherry e quelli di Jerez de la Frontera.

Gli eredi di Nicolò, forse distratti nell’intento di monetizzarne le proprietà, si dimenticarono in fretta di quel vino anche perché probabilmente non interessava a nessuno e per questo rimaneva nelle botti, immobile, ammantato da una nobiltà di gattopardiana memoria, incurante del tempo e del lento, ma inesorabile, scorrere delle stagioni.

Gli anni passano, sino a giungere nel 1985, quando Marida Jacono della Motta, nipote diretta del defunto Nicolò, contattò Piermario Meletti Cavallari (produttore toscano del vino Grattamacco, nonchè abile enologo) che, a margine di un convegno tenutosi a Roma, si fece convincere all’assaggio di questo vino rimasto in botte per ben 53 anni. 

Esterrefatto ed incredulo, contattò a sua volta il compianto Maestro Luigi Veronelli che, degustandolo, fu folgorato ed alle prese con un vino straordinario, si emozionò a tal punto da riconoscergli il dogma dell’unicità e del miracoloso, trovandogli un nome emblematico: “Ora da Re”.

Delle 9 botti, ancora in cantina, vennero scelte le migliori tre (la nr. 2, la nr. 8 e la nr. 9) ed il vino imbottigliato in un vetro particolare, creato da Giacomo Bersanetti, noto design dell’epoca. Questo vino è stato prodotto con uve Frappato, Calabrese e Grossonero: il Frappato è vitigno molto antico, le cui origini si fanno risalire al XVII° secolo, non è autoctono, ma la provenienza è di matrice iberica; il Calabrese, più noto come “Nero d’Avola” è autoctono che ben si adatta ad un invecchiamento molto lungo, mentre il Grossonero, vitigno diffuso su una ridotta superficie in provincia di Catania e Ragusa, viene esclusivamente vinificato in uvaggio con altre varietà locali.

Luigi Veronelli, definì “Ora da Re” un vino semplicemente mostruoso, da non aver eguali nel resto del pianeta; un vino diventato da subito emblema della Sicilia e di una longevità che va oltre qualsiasi regola scientifica.

In sintesi il Divino in un vino.

Quando ho appreso questa storia, una specie di favola della buonanotte ma con connotati più simili alla ricerca dell’Arca perduta, un solo pensiero ha iniziato a martellarmi in testa, dovevo, a qualsiasi costo impossessarmene, come attratto rabdomanticamente da un magnetismo al quale non riuscivo a sfuggire. La bottiglia da 37,5 cl che conservo ancora in cantina (vuota) è della botte nr. 2 ed è la nr. 6399 di 7.500 bottiglie ricavate; per chi, come me crede nei numeri e nella loro simbologia, la bottiglia mi lanciava segnali premonitori.

Il numero del Destino si ottiene sommando i numeri riducendo la cifra ottenuta ad un solo numero, ovvero 6399= 6+3+9+9=27 e quindi 2+7=9.

Il 9 e’ un Numero sacro poiché è il risultato del 3 moltiplicato per se stesso (3 X 3 completa l’eternità). Rappresenta la triplice Triade, la soddisfazione spirituale, il conseguimento dell’ obbiettivo , principio e fine, il Tutto, numero celestiale e angelico, il Paradiso terrestre. Nella Religione ebraica il 9 rappresenta l’intelletto puro. E’ il numero dell’iniziazione, dei riflessi divini, esprime l’idea divina in tutta la sua potenza astratta.
Incominciavo a preoccuparmi e nel momento in cui, l’ho avuta tra le mani, ho avvertito una sorta di energia cosmica che mi avvolgeva, per certi versi è stato come impadronirmi del Graal, di qualcosa di immortale, una sorta di linea diretta tra umano e Divino ed il pensiero è andato direttamente ad una monografia sul Caravaggio, di cui sono in possesso e più precisamente al dipinto olio su tela del 1596 “Bacco”, attualmente in visione alla Galleria degli Uffizi, dove il dio del vino porge con la mano sinistra una coppa (Graal) e con la destra tiene ben saldo un fiocco nero annodato (una sorta di collegamento) che unisce Dio all’uomo. 

Per un istante ho avuto la sensazione di avere per le mani l’eterna giovinezza, rappresentata da un liquido vivente, semplicemente naturale, creato con l’istinto e la sapienza, figli di un tempo primordiale non ancora corrotto dalla scienza, ma estremamente puro nella sua essenza. 

Non restava che stappare quella piccola bottiglia in un mistico rituale così arcaico, ma allo stesso tempo così attuale da eliminare definitivamente le barriere spazio/tempo.

La degustazione è avvenuta in religioso silenzio.

Versato delicatamente nel calice, si presenta di un profondo color tonaca di monaco, ma allo stesso tempo di vivida purezza visiva; al naso, un iniziale ed inconfondibile mallo di noce, lascia ben presto il posto a profumi di datteri, fichi secchi, miele di castagno e tostature di caffè, ma è in bocca che ti stupisce facendoti pensare ad un vero e proprio miracolo della natura ed al suo carattere divino, perché nonostante siano passati più di 80 anni, è ancora così straordinariamente vivo ed emozionante nella sua intensa nota ossidativa che equilibra alla perfezione il dolce della frutta essiccata con le note amarognole del mallo di noce e del caffè. E’ caldo, a tratti seducente e voluttuoso e in bocca è come avere il sole, talmente è persistente; è un concentrato di sapori, di profumi, di luce, di aria salmastra, di terra, di fuoco, di fiori, di frutti e di tutto quello che la Sicilia, a livello naturale sa esprimere. E’ come se mi fossi dissolto molecolarmente, catapultato direttamente indietro nel tempo, nel Feudo di Mazzaronello, una terra che non ho mai visto con i miei occhi ma che, a livello emotivo mi ha concesso l’unicità di essere presente, come un deja-vu.

Ogni tanto, scendo in cantina, la riprendo in mano, tolgo, facendo attenzione, il tappo ed annuso per pochi secondi il contenuto. Nonostante il vino non ci sia più, emana ancora profumi e sensazioni che mi infondono energia vitale, ritemprando quella sopraffatta da convenzioni materialistiche vissute nel quotidiano. E’ un rito che mi concedo centellinandolo perché ho sempre il recondito timore che, prima o poi, i profumi rimasti racchiusi possano perdersi e la magia possa definitivamente spezzarsi.

Ora da Re, ha accresciuto in me la convinzione che il vino sia il sangue della terra, simbolo di morte e di rinascita e del dualismo tra il bene ed il male (libero arbitrio), terapeutico se bevuto con moderazione, dannoso se abusato ed è per questo che sono portato a pensare che nel Giardino dell’Eden, l’albero della conoscenza non fosse rappresentato dal frutto identificato in una mela (tra l’altro mai citata nella Bibbia), ma da una pianta di vite e quando i nostri progenitori, disattendendo gli ordini di Dio, si cibarono dei frutti, si sentirono ignudi e si coprirono, non con foglie di fico, ma con foglie di vite.

La parola vino, nella Bibbia viene citata 278 volte in 258 versetti, mentre la parola vite è presente per 141 volte in 135 versetti!!

Ora da Re è il traid-union con quella natura che abbiamo il dovere di riconquistare e che nel contempo ci consentirà di recuperare la sapienza (il respiro di Dio) e l’istinto primordiale dimenticati in tempi di cui non si ha più memoria.