“Io…ne ho viste cose che voi umani neanche immaginate.....navi da combattimento in fiamme  al largo dei bastioni di Orione e ho visto i raggi B balenare nella notte vicino alle porte di Tannhauser e tutti quei momenti andranno perduti come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire”; queste le ultime parole del replicante Roy Batty nel cult movie Blade Runner. Pensava di aver visto, nella sua pur breve vita, cose inimmaginabili, ma purtroppo per lui, non vide mai la Borgogna e la Champagne.

E’ passato circa un decennio dal giorno in cui, uno conoscente mi fece dono prezioso di una bottiglia di Brunello di Montalcino del podere Donatella Cinelli Colombini annata 1994 , un giorno che ha segnato enologicamente la mia esistenza ed il perdurare di un amore sublime nei confronti del soave nettare di bacco. Ancora oggi a distanza di anni, benedico quel giorno. Ho avuto in tutto questo tempo un prezioso compagno di viaggio, un ugual seguace dell’inebriante succo degli dei, critico ma immensamente votato ad un continuo ed evolutivo apprendimento enologico. Insieme in mille avventure e spero in mille altre: il mitico Paolo, nonche’ cognato ed amico di lungo corso.

Gli anni e le esperienze sul campo hanno temprato ed affinato le nostre capacità sensoriali nella degustazione e nella scelta dei vini; abbiamo esplorato le zone che contano dell’Italia, abbiamo seguito con l’umiltà dell’apprendista corsi di degustazione, serate enologiche ed ultimamente, ho voluto indegnamente cimentarmi nell’arte vinicola, piantando alcune barbatelle di barbera che attendono fra un paio d’anni di donarmi i primi frutti. Le nostre umili cantine sono impreziosite di bottiglie e la nostra passione nello stappare pezzi autentici di storia enologica, fatta di duro lavoro e di sudore ci entusiasma come dal primo giorno. Dovremmo sentirci appagati? Direi proprio di no.

Il cammino della vita è un lungo percorso di conoscenza, di continua evoluzione e miglioramento. Sentivamo il bisogno di estendere le nostre esperienze enologiche oltre frontiera, avventurandoci in luoghi a noi sconosciuti, di grande fascino, ma di difficile interpretazione ed era un’esigenza, rimandata da alcuni anni per timore, o forse quando iniziammo a parlarne non eravamo ancora pronti. Serviva un ulteriore cammino di preparazione tecnica, ma soprattutto psicologico ed introspettivo.Ricordo, che iniziammo a parlarne circa un paio di anni fa (2004), dopo aver amabilmente degustato una buona bottiglia di Barolo, accompagnato da polenta e stufato d’asino, in una fredda ed umida  domenica d’inverno. Si sa, che dopo un paio di bicchieri, quando ti si scalda il cuore, la mente veleggia solcando mari che ti possono portare ovunque ed il coraggio e l’intraprendenza prendono il sopravvento sulla ragione. Osservai le nostre compagne e capii che non diedero peso alle nostre parole, memori di quanto accaduto per una gita enogastronomica per la festa del tartufo d’Alba rimandata di anno in anno per circa 9 anni. Si sbagliavano!. Bastò parlarne per capire che quel viaggio l’avremmo fatto ed in cuor nostro, nutrivamo la speranza che potesse aprirci ad orizzonti affascinanti di apprendimento e di scoperta. 

Era solo l’inizio. Il biennio antecedente la partenza del nostro viaggio in terra francese si è dimostrato inconsciamente un periodo di preparazione indispensabile per poter cogliere sul posto alcune sfumature invisibili all’occhio dell’appassionato inesperto. Mi spiego meglio: le visite in alcune cantine piemontesi a ridosso della vendemmia, la scoperta del pinot noir alto-atesino e la rivelazione di alcuni bianchi di Termeno e della provincia di Bolzano, l’ascoltare attentamente storie di vita vissuta di un piccolo produttore toscano capace di fare un ottimo vino a ridosso delle colline lucchesi, avere vendemmiato sentendo nelle mani un misto di pruina e di succo d’uva, cogliere le differenze dei vari terroirs.....è servito e molto. E’ stato un percorso preparatorio e propiziatorio. Siamo partiti con un bagaglio colmo di esperienze che sono state tolte dalla nostra sacca virtuale nei momenti opportuni, riempiendola ulteriormente con nuovo materiale umano e tecnico. 

Quando devo partire per luoghi a me sconosciuti, provo ad immaginare con la fantasia come possano essere, idealizzandoli in un certo qual modo, forse influenzato dal materiale utilizzato per comprenderne il territorio, i modi ed i costumi. Di norma, non ci azzecco mai, alcune volte rimango deluso, altre volte affascinato. 

Ho cercato di preparare minuziosamente il nostro percorso e penso di esserci riuscito in modo soddisfacente, ma come diceva il mio saggio padre, un conto è la carta, un conto è la vita reale e pur preparandoti nel migliore dei modi, a volte ti imbatti in qualche ostacolo da valicare. La vita, forse, è bella anche per questo. 

Ad accompagnarci nel nostro cammino d’oltralpe, una terza persona, schietta e genuina, non estremamente tecnica, ma capace di apprezzare e di riconoscere il buon vino. Per certi versi è stata la nostra guida spirituale, una sorta di Virgilio, pronto a smorzare i facili entusiasmi, ma allo stesso tempo, sempre tesa a spronarci ad osare e sperimentare nelle degustazioni. Lo zio Mario, grande compagno di viaggio, in sintesi un coetaneo con una ventina di anni in piu!. Spero ardentemente che ci possa e voglia seguire nella nostre prossime avventure. La rivalità Francia/Italia nel settore enologico, si perde nella notte dei tempi; due diversi paesi, due diversi modi di pensare, due climi diversi e diversi terroirs. I nostri cugini hanno comunque avuto da sempre una certa supponenza, un certo snobismo innato con la presunzione di poter fare vini superiori per qualità e fama a quelli italiani. Ci eravamo fatti incantare dai roboanti vini di Bordeaux e dai Sauternes, ma in cuor mio nutrivo la sensazione di non essere pronti; ci saremmo fatti catturare dalla fitta ragnatela degli Chateaux ed inevitabilmente avremmo vagabondato perdendo la giusta direzione. Approfondendo l’argomento, decidemmo che il giusto itinerario per iniziare il cammino verso la comprensione dei vini di Francia dovesse partire dalla Borgogna alla quale avremmo accompagnato una visita anche nel territorio della Champagne. 

E’ giunto il momento di passare ai fatti, ora inizia l’avventura.

Levataccia mattutina alle ore 4,30, alle ore 6,00 in punto si parte. Tralasciamo il viaggio, tra l’altro comodo, a bordo della mia Toyota Corolla Verso, ed alle ore 11,35 ci ritroviamo a posteggiare il mezzo in una delle piazze principali di Beaune, cittadina medioevale situata nella Cote d’or, nonche’ nostro quartier generale, punto di partenza negli spostamenti verso le tappe di degustazione. 

Mi sento bene e sento le giuste sensazioni; avverto la stessa carica negli occhi dei miei compagni, c’è quasi la bramosia di iniziare subito il nostro percorso, ma tiriamo le redini ai cavalli che vorrebbero galoppare a briglie sciolte e cerchiamo di attenerci al programma stabilito, ovvero, pranzo, sistemazione nell’hotel Adelie, situato a Montagny le Beaune a circa 3 km dal capoluogo ed infine visita alla città. 

L’hotel Adelie a Montagny le Beaune era confortevole, essenziale ma ospitale e l’immagine che piu’ lo rappresentava era la gentilezza ed il savoir-faire della madame alla reception. All’interno, nella sala da pranzo erano affissi quadri riportanti le edizioni della festa di Saint Vincent, protettore dei vignaioli ed il mio rammarico piu’ grande fu di non poter entrare in possesso di quello rappresentante il 1991, in stile medioevale. 

Passiamo oltre parlando della cittadina di Beaune.

Io e lo zio in una via di Beaune

Classicamente turistica, improntata esclusivamente sul commercio dei vini di Borgogna, straripante di enoteche, chiamate in gergo boutique, immensamente eleganti, raffinate e con prezzi da capogiro. Una cittadina, che si regge sul vino come prima attrazione, il quale, ha la forza di offuscare la bella basilica di Notre Dame in chiaro stile gotico e l’Hotel Dieu, antico e caratteristico ospedale costruito da uno dei tanti duchi di Borgogna per assicurarsi il paradiso. 

Eravamo impazienti, ma soprattutto qualcosa non quadrava. Non avevamo visto nessun vigneto fino a quel momento. E’ pur vero che avevamo fatto tutta autostrada e che il nostro hotel si trovava a poca distanza dall’imbocco, ma il fatto di non esserci ancora imbattuti in un solo ceppo di vite ci rendeva nervosi. Avremmo dovuto aspettare il giorno seguente e col senno di poi non e’ stata vana l’attesa ma ha reso più entusiasmante e meravigliosa la vista che si sarebbe aperta ai nostri occhi.

La sera, dopo una cena a base di lumache intinte in una salsina tartare trabordante di esalazioni di aglio, escargbouef ovvero manzo con contorno di lumache, fromage e dessert, il tutto innaffiato con un rosso giovane della Haute Cote de Beaune non esaltante se non nel prezzo (euro 23), ci abbandonavamo ad un sonno per alcuni versi travagliato, sia per le lumache che andavano su e giu’ per lo stomaco, sia per le dimensioni del letto, sia per alcune russate generali. Ma in testa un solo pensiero, l’avventura stava per cominciare.

Sveglia alle ore 7.00, petit dejeuner alle ore 7.30, ore 8,15 in auto pronti per addentrarci nel fitto ramo delle degustazioni. Ringraziamo pubblicamente quella santa donna della Paola, moglie del nostro vate Mario, la quale, colta da illuminazione sulla via di Damasco,  ci aveva dotato prima della partenza dall’Italia, di alcuni pacchi di grissini e di taralli aventi funzione di asciugare le bevute giornaliere, preparandoci ogni volta a nuove degustazioni.

Prima tappa Chassagne Montrachet. Tempo perturbato e per alcuni aspetti strano. Il tempo in Borgogna merita un piccolo approfondimento. Senza dubbio piu’ ostile rispetto a molte regioni italiane, forse avvicinabile a quello piemontese, ma in qualche modo diverso. Ci sembrava di essere stati catapultati ai tropici, in quanto improvvisamente pioveva per 10 minuti, poi si interrompeva, una piccola schiarita, alcuni raggi di sole che mitigavano la temperatura, poi ancora perturbato, pioggia e cosi’ via. Da questi particolari, incominciammo a chiederci quale evoluzione avessero avuto le piante nel corso dei secoli per adattarsi ad un clima simile e a temperature, per quanto riguarda il mese della nostra visita (fine aprile), piu’ rigide rispetto a quelle di casa nostra. Il clima che da sempre influisce sui raccolti, ci faceva pensare subito a vini diversi dai nostri pur non avendoli ancora assaggiati. Non ci sbagliavamo.

Una strada fondamentale taglia la Cote d’Or in due, ovvero la d74 ed è significativo che questa venga chiamata la Route des Grands Cru; imboccarla ed essere entrati in paradiso è stata la stessa cosa. Una folgorazione!! 70 km di vigneti, uno dietro l’altro, a perdita d’occhio con questi ceppi bassi, con l tralci ad allevamento guyot , con le prime gemme che sbocciavano per poi trasformarsi in fiori,  fruttificare e fogliare. Una dietro l’altra in modo ordinato, quasi maniacale, un esercito infinito che intimorisce, pronto a dar vita ad una grande battaglia. Sarebbe stato bello esserci per la vendemmia, ma quello era il momento giusto per degustare e per essere presi in considerazione dai vignerons. 

Uno dei fattori fondamentali appresi sul campo ed intuito genialmente da Paolo è l’individuazione del vigneto, ovvero, capire la sua allocazione e l’esposizione, per poi recarsi direttamente dal produttore per la degustazione e l’eventuale acquisto.  Il primo che ci ha accolto molto cordialmente soprassedendo al nostro francese volgare è il vigneron Duperrier-Adam produttore dello Chassagne Montrachet, pregiatissimo vino bianco nella  versione base ed in quella superiore premier cru “les Caillerets”. In Borgogna i vini vengono distinti a secondo del loro pregio in vin de villages, premier cru, per arrivare alla categoria superiore dei grand cru. Nella zona di Montrachet si arriva sino al premier cru. 

Lo Chassagne Montrachet, con uvaggio 100% chardonnay, si presenta di un colore giallo paglierino carico, con sentori floreali, delicato al palato e con una buona persistenza aromatica, il premier cru ha un colore piu’ dorato, sentori di vaniglia e con un leggero retrogusto amarognolo sul finale, ma sicuramente con maggior struttura. Il vigneron è molto gentile con noi, ci parla anche dei vini del nord della Borgogna che definisce “trop cher”-troppo costosi, senza comunque infangare il lavoro dei suoi conterranei, forse piu’ benestanti. E’ parco di consigli ed in qualche modo, compie appieno il suo lavoro seguendo alla lettera la carte d’accueil, ovvero le regole di accoglienza del degustatore promulgate dal governo francese. Con il classico orgoglio rivoluzionario transalpino, ci mostra con gran fierezza i suoi vigneti, facendoci capire quanto sia duro il lavoro ed il detto che “il vino si fa in vigna e non in cantina” risuona ora, piu’ che mai, veritiero. Un bel personaggio il Duperrier.

Il villaggio di Chassagne Montrachet, come del resto tutti gli altri villaggi che da li a poco avremmo incontrato, assomigliano a piccole città fantasma; li attraversi e senti nel silenzio illontano riecheggiare del rumore provocato dai piccoli trattori che lavorano all’interno del vigneto tra un filare e l’altro. Passando in auto, o camminando per le viuzze di questi villaggi sembra che il tempo si fermi, la vita va a rilento, seguendo i ritmi naturali correlati all’evoluzione agricola della vite.  E’ un mondo a se’, che personalmente amo, lontano dalla frenesia metropolitana, giornalmente a contatto con una natura difficile, ma se rispettata, prodiga di soddisfazioni. E’ innegabile che si parli di una vita di sacrificio, dove la vigna viene prima di ogni altra cosa. 

Inebriati da alcuni bicchieri di buon bianco, assaporati alle 9,15 di mattina, riprendiamo il cammino dirigendoci verso un altro village poco distante nel quale viene prediletta la coltivazione di uva a bacca rossa. E’ il villaggio di Volnay.

Il cartello che immette nel terroir di Volnay

Piove. A tratti in modo incessante. Per fortuna, saranno gli ultimi momenti di pioggia intensa dell’intera spedizione. Il villaggio non è dissimile da quello appena tralasciato; le abitazioni sono tutte costruite con piccole pietre a vista color ocra chiaro. Pulite.  Guardandole mi vengono in mente le immagini degli attraversamenti dei piccoli centri abitati da parte dei ciclisti in mitiche corse quali la Parigi-Roubaix o il Giro delle Fiandre. Pochi gli abitanti e tutti in vigna. Ci rifugiamo sotto una tettoia di un edificio scolastico aspettando che spiova per poter avviarci dal vignaiolo Christophe Voudoisey situato a pochi passi dal centro del villaggio. Ci accoglie molto giovialmente il suocero, un omino vestito con abiti da lavoro che non ci fa aspettare e ci conduce direttamente nella cantina, la cave, buia e con fresca temperatura, penso sui 13 gradi. Lui sa poco di italiano, noi altrettanto di francese, ma ne nasce comunque una bella conversazione prima di iniziare la degustazione di due vini rossi, ovvero il Volnay ed il Pommard

Bevuti giovani, i rossi di Borgogna sono difficili da apprezzare e soprattutto vagamente interpretabili. Le note fruttate, speziate o balsamiche sono di non facile intuizione e la tannicità a volte è ben marcata come nel caso del Pommard premier crus “Les Chanlins-Bas”. Devo essere sincero, ho voluto fidarmi di quanto letto su alcune guide che riferivano sulla tannicità del Pommard ma altrettanto ne esaltavano le qualità e l’evoluzione che questo vino ha nel corso della maturazione, che normalmente avviene in un quinquennio  trasformandolo in un vino di pregio.

Il vigneron ci conferma e ci ribadisce che il Pommard e uno dei migliori vini della Cote d’Or, ma che va bevuto a distanza di alcuni anni dall’imbottigliamento. E’ una scommessa, e nel 2010 vedremo se l’avremo vinta. Il Volnay, è sicuramente meno tannico, ma ha bisogno comunque di essere lasciato a maturare in cantina, ben coricato ed in assenza di luce diretta. Entrambi i vini, hanno un colore rosso brillante, non eccessivamente carico, ma e’ normale per un vino fatto con uvaggio 100% di pinot noir. Siamo abbastanza soddisfatti. Acquistiamo un paio di bottiglie a testa, ma in cuor nostro sappiamo che le maggiori soddisfazioni le avremo assaggiando i vini rossi del nord, quelli della Cote de Nuits. 

Tempo fugit. Ritorniamo a Beaune per buttare qualcosa nello stomaco, una baguette con dentro di tutto e di piu’, un bicchere di Coca Cola per rinsavire le cellule celebrali e poi via,  di nuovo on the road verso il villaggio di Aloxe Corton, celebre per la produzione di un grande bianco: l’Aloxe Corton Charlemagne. Chi si reca in questo villaggio, non puo’ non essere attratto dallo Château Corton-Andre’, un castello presumibilmente del XVII/XVIII secolo, tenuto come un’opera d’arte e dalla particolarità dei tetti ricoperti da mattonelle colorate, che illuminate dal sole, donano alla struttura un bell’effetto cromatico.

L'esterno dello Château Corton-Andrè

Diamo un’occhiata in giro. Cerchiamo di capire guardando oltre lo Chateau dove possa essere situato il vigneto incriminato. Si sprecano le ipotesi. Come sempre, inizialmente le opinioni non convergono, poi si ragiona e si cerca di arrivare alla piu’ logica delle conclusioni. Cercavamo di avvistare il pendio con la migliore esposizione solare, così come fece Carlo Magno circa 1.200 anni prima, quando si accorse che in un determinato pendio, la neve si scioglieva più velocemente che nel resto del territorio. Là, si doveva piantare la vite e là nacque un maestoso vino bianco.

Lo Chateau è aperto. Siamo un po’ intimoriti. Ambiente troppo raffinato. Personalmente non mi sentivo a mio agio e restavo sulle mie fino al punto in cui la saggezza emise una sentenza. Lo zio Mario ci invitava ad entrare a richiedere una degustazione; avevamo fatto 600 km e ce ne andavamo senza assaggiare quel vino tanto ambito? Era fuori discussione.

Ci accoglieva una donna, fine ed elegante, probabilmente sulla quarantina. Non bellissima  ma a suo modo accattivante nel gesticolare e nell’esprimersi in un francese perfetto. L’effetto scenico della cantina imbarazzava. Una cantina contenente in modo assolutamente ordinato 47.000 bottiglie. Nulla era lasciato al caso. Lievemente illuminata, aveva al centro una piccola tavola rotonda che poggiava sul pavimento di ghiaia fine e chiara; sulla tavola due vini, un Aloxe Corton Rosso e l’Aloxe Corton Charlemagne. Guardavo lo sguardo dei miei compagni e in loro vedevo due occhi infuocati di bestie feroci che vogliono impossessarsi subito della preda. Ci fa assaggiare il il rosso, ma le nostre menti sono al bianco ed il ricordo degustativo di quel vino è impalpabile. Con estrema delicatezza e maestria, rimuove dai nostri bicchieri le tracce del vino precedente avvinando un po’ di Charlemagne e poi con sensualità ci versa il vino tanto agognato.

Uno spettacolo di finezza, di limpidezza e di persistenza aromatica incontrata in pochissimi altri bianchi. E’ una vera e propria illuminazione, un sogno, che ci porta presto alla realtà non appena la madame ci rammenta il prezzo: 60 euro la bottiglia. 

Ci invita a passare in boutique per l’eventuale acquisto. Un bianco a 60 euro!! La bottiglia va oltre i nostri canoni, è troppo cara; aleggia nell’aria un certo imbarazzo e questo la gentil signora lo coglie sicuramente ed è allora che l’esperienza viene a galla. Lo zio Mario con l’ormai celeberrima frase “Merci Madame pour la degustation, aurevoir.”ci toglieva dall’impasse e ci permetteva di uscire comunque soddisfatti dallo Chateau.

Mentre ripenso a quanto avvenuto, devo essere sincero ed affermare che ho un rimpianto. Il rimpianto di non aver acquistato una bottiglia di Charlemagne. E’ vero, erano 60 euro, ma forse nella vita è meglio avere un rimorso che un rimpianto: e meglio fare una cosa e poi pentirsene che non farla e rimpiangerla per sempre.  Belle lezioni di vita!!

Euforici per quanto degustato, ma soprattutto soddisfatti, andiamo oltre e già che ci siamo vogliamo esagerare con un’altra degustazione da un produttore a un centinaio di metri dallo Chateau. 

La storia ci ha insegnato che quando hai bevuto il vino migliore o continui a berlo oppure smetti e non bevi più’ nulla: mai lasciare la retta via per le scorciatoie. La degustazione seguente potevamo evitarla e la signora del domaine del quale mi sfugge anche il nome poteva evitare di farci assaggiare 4 vini uno più deludente dell’altro.  Il buon sapore rimasto lungamente in bocca dell’Aloxe Corton Charlemagne – Chateau Andre’ è stato sopraffatto da del vinaccio. Ben ci sta. 

La giornata e’ intensa, ma soprattutto non è ancora finita. Per concluderla, ci manca una tappa in un sito che, per gli appassionati come noi e’ quasi un luogo di culto, il Sancta Sanctorum dei vigneti, vale a dire  Romanèe-Conti a Vosne Romanèe

Seduto sul clos delimitante il vigneto Romanèe-Conti

1,8 ettari di vigneto che produce c.ca 6.000 bottiglie all’anno impensabili da acquistare per il loro costo esorbitante. E’ un vigneto mitico, paragonabile ad un’opera d’arte, alla Gioconda o ad un quadro di Picasso; magari anche sopravvalutato, ma poterlo vedere, toccarne la terra, grassa e forte, pur sapendo che difficilmente riuscirai nella vita a berne un sorso, lo rende ancora più mitico ed irraggiungibile. Una sorta di cerca del Graal , la ricerca di un’eterna giovinezza inarrivabile ed essere così vicini senza poterlo assaporare lascia un amaro in bocca difficilmente cancellabile. Nonostante tutto potrò dire “Io C’ero!!” e le belle fotografie ne addolciranno il ricordo. 

Ripensando al paesaggio costellato di ettari ed ettari di vigneti nella zona di Vosne Romanèe , mi rimane negli occhi una bella immagine che allo stesso tempo mi riempie il cuore di nostalgia e quasi mi commuove,  ma che sintetizza la Borgogna , e che se fossi un uomo di marketing, non indugerei ad identificarla come spot promulgativo: quell’uomo, visto da lontano, sul calar del giorno, curvo, con ben saldo le briglie del suo destriero intento a dissodare la terra del suo vigneto mi ha colpito l’anima, e se devo essere sincero,per un attimo l’ho invidiato. 

Quando ai miei colleghi di lavoro dico che l’uomo deve ritornare a coltivare la terra, riconducendo la sua posizione in un contesto più reale e meno virtuale vengo sovente preso in giro. Ora ne sono sempre più convinto. Mi rimane il dubbio che quell’uomo fosse Claude Dugat, uno dei migliori vignerons della Borgogna.... ma questa è un’altra storia. 

Potevamo andarcene da Vosne-Romanèe senza una degustazione ed eventuale acquisto? La risposta è molto semplice. No!!! La sera precedente, sfogliando una guida dei produttori della zona, ci aveva colpito il Domaine Rene’ Cacheux et fils e la scelta di visitarlo fu azzeccata. 

L’unico inconveniente fu che il povero Mario, allergico alla solforosa, non potè scendere nella cantina a degustare il Vosne-Romanèe, anche se il giorno seguente, ripassando dal paese si riprese la possibilità con gli interessi approfittando del termine degli effetti della solforosa. 

Il vigneron Cacheux, presumibilmente il figlio, si è distinto per gentilezza, competenza e pazienza. Un vero degustatore, uno dei pochi che con il tastevin e con risucchi ad arte assaggiava il vino prima di servircelo nei bicchieri di degustazione. Siamo rimasti catturati dal Vosne-Romanèe Premier Cru “Le Suchots” 2003 dal bel colore rosso carico, quasi impenetrabile, una colorazione più intensa rispetto alle altre annate a causa del caldo intenso, la ”canicule” che ha anche contribuito ad elevare la gradazione alcolica e la selezione naturale dei grappoli, logicamente accompagnata da un’anticipata vendemmia. Seppur giovane, ha quasi le caratteristiche di un vino già pront,o ma come dice il Cacheux in continua evoluzione e maturazione; i tannini sono più morbidi rispetto ad un Volnay o ad un Pommard, buona la struttura e la persistenza aromatica, un vino che ci darà delle belle soddisfazioni. Ne compriamo in due tranches 8 bottiglie. 

Una giornata piena, in tutti i sensi. Eravamo sazi di vino e degustazioni e ci promettevamo per la cena di bere qualcosa di diverso; non fu così visto che accompagnammo ad un piatto di carne non esaltante un bicchiere di Saint Aubin, un discreto vino prodotto nelle vicinanze di Beaune, . 

Che bella giornata. Non era ancora finita e nella nostra camera tripla del piccolo hotel Adelie, oltre a vedere impietosamente l’eliminazione del Milan dalla Champions, che in altri frangenti mi avrebbe messo di cattivo umore, pensavamo già al domani ed alle visite a Vougeot e a Gevrey-Chambertin transitando per Chambolle Musigny. La notte fu meno agitata ed il sonno ci colpì profondamente. 

Svegliati più presto del solito ed eseguito i soliti rituali, per incanto ci troviamo già in auto a percorrere la d74 in direzione Vougeot. Dalle prime luci dell’alba soffia un vento freddo a tratti fastidioso; siamo abbastanza coperti, l’aria comunque si sente ma non arresta la nostra avventura.

In breve tempo, circa mezz’ora da Beaune, arriviamo a Vougeot e non appena entriamo nel village, cerchiamo le indicazioni per il famoso Clos de Vougeot. Erroneamente confondiamo il piu’ famoso Clos con un Chateau distante c.ca 200 metri dalla nostra meta. Lo Chateau de la Tour, architettato splendidamente ma a quell’ora del mattino con sala degustazione chiusa. Ci accorgiamo dell’errore e nuovamente ci dirigiamo al Clos de Vougeot che si apre ai nostri occhi come un vigneto delimitato dal clos (muretto) all’interno del quale si erge come una nave nel deserto uno splendido e maestoso Chateau che non perdiamo l’occasione di visitare. 

Interno dello Château de Vougeot

Stupenda architettura esterna ed interna, nonché sede di una Confraternita di Vignerons e piu’ precisamente di tastevins, una sorta di loggia massonica, elitaria, teatro di riunioni segrete e misteriose che aleggiano sulle incredibile vicende enologiche borgognone. Per alcuni istanti mi sono sentito trasportato indietro nel tempo, come un iniziato, un confratello che si stava recando ad una delle tante periodiche riunioni, avvolto da un mantello con scudo crociato, con fodero e spada, accompagnato dai  fidi scudieri in una notte buia e tempestosa. Tutto molto affascinante e a tratti misterioso. Scendo con la fantasia dal cavallo e salgo su quello meccanico ed insieme a miei due compari ci avviamo, dato l’orario, a iniziare la prima degustazione alla ricerca di un Clos de Vougeot Grand Cru. Come per Vosne-Romanèe avevamo segnalato un buon produttore che malauguratamente non aveva piu’ a disposizione il Grand Cru. Ci consigliava il già citato Chateau de la Tour che a quell’ora doveva essere stato aperto. 

Ritorniamo speranzosi e la fortuna ci assiste. Suoniamo una bella scampanata allo Chateau, entriamo e ci portiamo al piano superiore dove in un bel salone seicentesco ci aspetta una deliziosa fanciulla che ci parla amabilmente e lentamente dello Chateau de la Tour –Clos de Vougeot Grand Cru 2004, facendocelo logicamente degustare.   

E’ senza orma di dubbio il miglior vino rosso di Borgogna assaggiato nel nostro lungo peregrinare; giovane ma forte, sembra già maturo con tannini morbidi, rosso carico quasi  impenetrabile, fruttato, polposo e lascia presagire una incredibile evoluzione nel tempo.   Come direbbero i francesi,”chapeau!!”, togliamoci il cappello di fronte a cotanta magnificenza ed anche a quella del suo prezzo d’acquisto ovvero euro 66 la bottiglia. In questo frangente, non abbiamo esitazioni come ad Aloxe Corton e non badiamo a spese. Acquistato.

Siamo gasati, non c’e’ che dire e il solo pensiero di recarci a Gevrey-Chambertin ad assaporare ed acquistare un nuovo finissimo Grand Cru ci esalta. 

Il cartello delimitante il terroir di Chambertin

Dopo un pranzo frugale, ci dirigiamo alla volta di Gevrey-Chambertin dove alle ore 14,15 abbiamo un rendez-vous con il domaine Trapet et fils, sì, un appuntamento fissato attraverso internet che speravo sortisse migliori risultati. 

Nonostante la madame del domaine fosse stata premurosa, affettuosa, vive l’italie, Milan c’est un grand Milan, voleva venderci il suo Gevrey Chambertin a 98 euro la bottiglia. Ci è sembrato un prezzo esagerato ed abbiamo desistito.

A onor del vero il Gevrey-Chambertin e’ un ottimo vino, anche se l’annata degustata mi ha un po’ deluso forse per il fatto che non fosse ancora pronto. 

Non fa nulla. La nostra mente al termine di questa faticosa giornata è rivolta ancora una volta agli sterminati vigneti fiancheggianti la d74, ai ceppi bassi posti con maniacale perfezione ad ugual distanza l’uno dall’altro e la loro visione sterminata è qualcosa di incantevole ed impressionante. Sarebbe stato bello possedere una mongolfiera, potendosi librare nell’aria per meglio gustare il panorama enologico di questa grande terra. Ma va bene così. 

Rientriamo alla base e quella sera, trascorriamo dei bei momenti cenando al Buffalo Grill di Beaune, in compagnia di una buona bistecca e di una fresca birra. Abbiamo anche il tempo di farci un paio di giri di cognac ascoltando, assorti, le argomentazioni dello zio intento a spiegarci la sua voglia di voler intraprendere il cammino di circa 800 km, a piedi, che porta al Santuario di Compostela. La sua spiritualità non si smentisce anche in questa occasione. Le riflessioni di giornata spaziano e riempiono il tempo in modo cordiale ed euforico. Pensiamo di aver fatto un buon lavoro: il percorso intrapreso ci ha fatto comprendere le diverse morfologie enologiche della Borgogna, ma soprattutto ci ha dato la possibilità di conoscere vignerons diversi per mentalità, tradizione e storia. Possiamo e dobbiamo ritenerci soddisfatti: abbiamo capito che il comune denominatore tra i vignerons francesi ed i vignaioli italiani è il duro lavoro in vigna, la passione e l’amore per la propria terra fonte inesauribile di vita e di sostentamento. 

La nostra spedizione, comunque, non finisce qui. Il pensiero è già rivolto alla capatina che ci vedrà protagonisti il giorno successivo nella regione della Champagne e più precisamente ad Urville presso la Maison Drappier; una tappa che non vogliamo sottovalutare e che non vorremmo si trasformasse nella classica scampagnata domenicale ma bensì ci farebbe cosa gradita che ci lasciasse delle belle sensazioni e dei bei ricordi.

La camera tripla dell’Hotel Adelie si è trasformata in breve tempo in un piccolo magazzino vinario; ormai sono ammassate 26 bottiglie ben impachettate e di grande valore. Sono i nostri tesori, il nostro bottino di guerra e prima di coricarci lo scrutiamo gelosamente con la segreta fobia di poterlo perdere, ma con la speranza di poterlo rimpinguare con la conquista della terra di Champagne.

Parlare di champagne, rappresenta per il sottoscritto qualcosa di veramente speciale. Ancor prima di vino, mi vengono alla mente alcuni personaggi che hanno fatto la storia, a me cara, dei Templari. Percorrendo in auto il territorio, mi vengono alla mente Bernardo di Clairvaux, Ugo di Champagne, Andrè de Montbard, Pagano di Montdidier, alcuni dei fondatori dell’ordine dei Templari e le interminabili pagine degli innumerevoli libri letti sull’argomento ne materializzano idealmente e paesaggisticamente le immagini ed i fatti di questo importante periodo storico per la Francia e per il resto d’Europa; un periodo legato alle crociate e segretamente alla ricerca di alcune delle sante reliquie cristiane andate perdute da oltre duemila anni. 

E chissà, se la fondazione dell’ordine è coincisa con un brindisi di Champagne d’annata . Bernardo di Clairvaux, in seguito santo, fu il reale inventore dello Champagne 200 anni prima dei più famosi ecclesiastici Dom Perignon  ed il compare Dom Ruinart. 

La mattina, ci alziamo come sempre, di buona lena. La giornata è molto bella, il cielo è terso, ma l’aria è fredda e pungente; più ci avviciniamo alla nostra destinazione e più la temperatura scende. Il territorio della Champagne è molto verde, leggermente collinare, lussureggiante ed a tratti compaiono ai nostri occhi mandrie di bovini al pascolo, quasi allo stato brado. La nostra destinazione dista 180 km da Beaune ad Urville, un piccolo villaggio di 177 anime dove abbiamo un rendez-vous con la Maison Drappier, casa di produzione e vendita di Champagne da circa 2 secoli. Le maisons più note nella regione della Champagne sono concentrate al nord, nei dintorni di Reims; sarebbe stato più ovvio, ma anche più dispendioso in termini di tempo addentrarci in quel territorio, visitando quelle più blasonate, vale a dire Ruinart, Veuve Cliquot, Moet & Chandon, Krug, Bollinger etc. etc.. La decisione di visitare i Drappier non è stata assolutamente un ripiego, anzi, venendo a conoscenza che le migliori maisons oltre a possedere i propri vigneti, si riforniscono di uva nel territorio dei Drappier, ovvero nella zona dell’Aube, mi ha spinto a pensare che in questo lembo di terra a sud della regione, avremmo avuto delle grosse soddisfazioni, inoltre, ero attirato dalla cantina millenaria costruita storicamente dai monaci cistercensi capeggiati dal già citato santo Bernardo di Clairvaux.

Ho una certa predilezione per lo Champagne. La visita alla Maison Drappier ha confermato, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che questo vino, prelibatissimo, è notevolmente superiore per eleganza, finezza, persistenza aromatica, perlage, lavorazione, assemblaggio delle cuvèe, rispetto ai più blasonati spumanti italiani. D’altronde, è nato prima lo champagne dello spumante. Alle 9,45 c.ca, entriamo nel piccolo villaggio di Urville. Temperatura esterna 3 gradi centigradi. Avvicinandoci al punto d’arrivo, incominciamo a scorgere un paio di chilometri prima, su dolci pendii alla nostra destra, i primi vigneti di pinot noir e chardonnay. E’ interessante sapere che in questa zona, vengono allevate in minima parte due qualità di uve di origine medioevale, ovvero l’arbanne ed il petit meslier. Ci chiediamo come la vite possa crescere a questa latitudine e tutto ciò ci conferma la miracolosità della natura. La maison è facilmente individuabile, posta al centro di Urville, fa bella mostra di sè per stile architettonico ed importanza.

Veniamo accolti nel migliore dei modi e fatti accomodare per alcuni istanti aspettando l’arrivo del figlio del sig. Drappier, vera anima della Maison, per la visita guidata. Vi ricordate le barzellette che iniziano con: “ c’è’ un francese, un inglese e un italiano.......”, ecco eravamo 3 italiani, 3 spagnoli e 5 francesi, sicuramente amanti del buon vino ed avidi di conoscenza enologica. La visita, bellissima e molto professionale ci stupisce per le 4 00.000 bottiglie (piene) accatastate una sull’altra con dovizia certosina e maestria millenaria. Una maison che sa unire la moderna tecnologia alla tradizione ed alla storia del passato, che ha saputo evolversi mantenendo ben saldi i principi basilari dell’enologia storica di questa regione.

Dopo circa un’ora di visita, tra cantine ed i vari reparti di produzione ed imbottigliamento della Maison, veniamo fatti accomodare in un bel salotto ottocentesco, signorile e di classe, pronti per iniziare le agognate degustazioni. La visita, intensa e prolungata, oltre a seccarci la gola, ci aveva preparato nel migliore dei modi il palato, che non aspettava altro che assaporare il frutto di cotanto lavoro. Si partiva con un Brut Nature, dosage zero, ovvero senza aggiunta di liqueur d’expedition; un vino che ho interpretato come il marchio di fabbrica, la certificazione di qualità dell’intera gamma dei vini della maison. Un vino non facile da bere, in quanto brut allo stato puro.

Passavamo oltre, ad una cuvèe speciale della casa, quasi un esperimento e ancorchè il nostro giudizio non collimava per entrambi, la ritenevo di buona beva ma sapevo che i pezzi pregiati dovevano ancora essere degustati. Tagliavamo la testa al toro e chiedevamo l’assaggio del Grande Sendrèe, la punta di diamante della casa vinicola. Berlo e sentirsi felice è stata la stessa cosa; uno champagne così ti fa amare la vita, ti mette in pace con te stesso e con il mondo. Grande perlage, spuma abbondante mentre viene versato nel flute, fragrante con sentori vanigliati, floreali, miele e albicocca. Dopo un vino così, pensi che il Blanc de Blancs che avremmo assaggiato successivamente potesse non essere all’altezza, ma ci sbagliavamo rivelandosi una vera e propria illuminazione con una finezza incantevole ed una lunga persistenza aromatica; inebriante, si scioglieva in bocca, quasi impalpabile, vero nettare degli dei. Era l’apoteosi. Per un attimo il grande zio Mario, si sentì in paradiso e vide materializzarsi la figura di San Bernardo che staccatosi dall’affresco riportato sul bel camino centrale, gli serviva santamente un nuovo flute di champagne. Facemmo incetta di bottiglie (16) ed avvolti da un’aurea mistica, camminando sollevati da terra, ci dirigevamo all’auto per il ritorno al nostro quartier generale in Borgogna.

Brindisi alla Maison Drappier

L’indomani, saremmo rientrati al paese natio e la nostra spedizione in terra francese si sarebbe conclusa.

Personalmente, devo ringraziare i miei “compagni d’avventura”, che mi hanno permesso di affrontare questa esperienza enologica; senza il loro prezioso apporto difficilmente sarei riuscito a compierla. Vorrei esprimere un’ultima considerazione: il primo miracolo di Gesù Cristo, fu a Canaan, quando trasformò l’acqua in vino, nell’ultima cena spezzò il pane e bevve (vino) dal calice, Lui si definiva la vite e noi i suoi tralci. Il vino, quindi, da almeno 2000 anni ha la sua grande importanza e la mia passione sbocciata un decennio fa quasi per caso ha qualcosa di miracoloso. In questa vita difficilmente riuscirò a diventare un vignaiolo o un vigneron, ma spero che, il più tardi possibile, il Signore mi conceda un posto nella sua vigna. E per concludere, apriamo le nostre menti e prepariamoci per la nostra prossima avventura: Bordeaux con i suoi chateaux ed i maestosi sauternes. Ed augurandomi un arrivederci nel 2007, vi lascio con alcuni emblematici versi di uno dei piu’ grandi poeti rinascimentali ossia Cecco Angiolieri:




                              Tutto quest’anno chè, mi son frustato

                              di tutti i vizi che solia avere;

                              non m’è rimasto se non quel di bere,

                              da quel me n’abbi Iddio per escusato,

                              chè la mattina, quando son levato,

                              el corpo pien di sal mi par avere;

                              adunque, dì: chi si poria tenere

                              di non bagnarsi la lingua e ‘l palato?

                              E non vorria se non greco e vernaccia,

                              chè mi fa maggior noia il vin latino

                              che la mia donna, quand’ella mi caccia.

Deh ben abbi chi prima pose ‘l vino,

                              che tutto ‘l dì mi fa star in bonaccia;

                              i’ non ne fo però un al latino.



                              Cecco Angiolieri