“Non di sole pedalate è fatto il ciclismo. Perché il bello della bicicletta è che ti mette sete e appetito e ti fa scoprire nuove tavole sulle quali soddisfarlo”.

(Giovannino Guareschi-1908/1968)


Questo pensiero poteva essere partorito solo da un’illustre penna italiana, da quel Giovannino Guareschi ricordato da tutti per la sua opera più nota, quel “Don Camillo” che tanto ebbe successo per via delle trasposizioni cinematografiche e per il significato politico che assunsero le vicende ad essa relative.

Queste poche righe, mi riportano inevitabilmente al ciclismo, uno sport che amo e che per un breve tratto della mia vita ho praticato fino a quando il fato, che governa ogni cosa, mi diede appuntamento nell’ormai lontano 2008 con l’asfalto e con un distratto automobilista. Risultato: bici distrutta, ecchimosi in ogni parte del corpo, anulare della mano sinistra storto, taglio profondissimo nell’indice sinistro ad un millimetro dalla recisione del tendine e postuma, operazione al ginocchio destro. 

Ho appeso la bicicletta al chiodo, ma la passione è rimasta intatta e cerco di non perdermi i grandi giri, le classiche del nord, quelle monumento ed i campionati del mondo. Chi mi segue e mi legge su questo blog sa che sono un romantico e che sono legato molto al passato e anche per il ciclismo rimpiango una certa eroicità di un tempo come  le grandi fughe da lontano del “Campionissimo” Fausto Coppi, le leggendarie vittorie del “cannibale” Eddy Merckx, le mirabolanti gesta del “pirata” Marco Pantani che sapeva far fermare l’Italia intera e il dualismo Saronni/Moser che infiammò la mia passione giovanile. 

Oggi il ciclismo è radicalmente cambiato a partire dalle biciclette leggere e tecnologiche, dai metodi di allenamento, dall’alimentazione all’organizzazione delle squadre e l’eroicità a cui mi riferivo in precedenza, pur rimanendo uno sport di fatica, è sparita, anche se negli ultimi anni un ciclista, dall’enorme talento sta facendo rifiorire in me questo sentimento; il suo nome è Tadej Pogacar, il più forte ciclista odierno. E’ incredibile come  uno Stato piccolo ed abitato solo da 2 milioni scarsi di abitanti, come la Slovenia, sia riuscita a partorire nell’ultimo decennio autentici campioni, quali  Mjtia Mohoric e  Primoz Roglic e un  fuoriclasse come Pogacar. Un ragazzo poco più che ventenne, nato nel 1998 e che a soli 24 anni ha già nel suo palmares: 2 Tour de France, 1 Parigi-Nizza, 2 Tirreno-Adriatico, 1 Giro di Catalunya, 1 Giro delle Fiandre, 1 Amstel Gold Race, 1 Freccia Vallone, 1 Liegi-Bastogne-Liegi, 3 Giri di Lombardia, 1 Tour della California, 2 Strade Bianche e 2 UAE Tour. Mancano all’appello solamente la Milano-Sanremo, La Parigi-Roubaix, il Giro d’Italia (che vincerà di sicuro quest’anno) e il Campionato del Mondo. 

Chi conosce poco questo sport, sentendo parlare di ciclisti sloveni potrebbe storcere il naso, probabilmente pensando che i migliori siano sempre stati gli italiani, i francesi ed i belgi, ma il ciclismo in Slovenia ha iniziato a muovere i primi passi già negli anni 30 del secolo scorso, quando lo Stato attuale era annesso alla ex-Jugoslavia e che vide tra i suoi primi campioni, negli anni ’60 il ciclista Frank Skerlj, nato a Lubiana nel 1941 e con i successi nel 1962 e nel 1967, sarà il primo corridore nella storia a vincere per due volte il Giro di Jugoslavia e inoltre, fu primo anche in due edizioni dell’Istrian Spring Trophy.

Ma in Slovenia, abbiamo un altro Skerlj che può fregiarsi del titolo di campione, anzi fuoriclasse alla Tadej Pogacar e mi riferisco all’Azienda Vinicola omonima, situata nel bellissimo borgo carsico di Sales, a 15 km alle spalle della città di Trieste; in questo angolo di paradiso, due giovani viticoltori, Kristina e Matej concentrano il proprio lavoro nella vigna per produrre vini da uve sane e mature ed autentici cavalli di razza, come la Vitovska, la Malvasia ed il Terrano. Tre vini meticolosamente affinati in botti di legno, in una cantina scavata nella pietra, in un ambiente a temperatura ed umidità costanti. Vini imbottigliati senza filtrazione e chiarificazione in un naturale passaggio dal vigneto alla bottiglia. 

Ho degustato la loro Malvasia annata 2020 di 14,0° vol., una bottiglia figlia della fatica contadina e del Carso, con il suo terroir ricco di sostanze ferrose che gli conferiscono un corredo organolettico speciale, un Orange Wine prodotto con una lunga fermentazione sulle bucce e con caratteristiche aromatiche davvero uniche. 

Ma veniamo come sempre alla degustazione.

Alla vista, si presenta cromaticamente di un bellissimo colore che ha le sembianze del sole, con sfumature dalla tonalità ambrata e con lievi velature figlie della estrema naturalità e dall’assenza di filtrazione.

L’ho pazientemente atteso fino ad immergerci il naso, che si esprime con un tripudio di frutta esotica, di ananas, ma anche di nitide note agrumate di arancia sanguinella e di albicocca disidratata. 

Roteato più volte nel bicchiere, sono emerse sensazioni smaltate e resinose, per poi virare su note speziate e sul finale effluvi balsamici, quasi medicamentosi.

In bocca è decisamente verticale, con un’acidità debordante e con un corollario salino quasi a rimembrare la brezza marina poco distante dai vigneti dell’azienda. Si avverte chiaramente la componente fruttata, in parte mielosa ed in parte solleticata da una nota gustativa di zenzero, in una beva mai banale, alimentata da un’importante gradazione alcolica che viene soggiogata da una bellissima freschezza, su di un finale persistente e chiuso con un retrogusto citrino.

Posso esprimere con assoluta certezza che questa Malvasia incarna le stigmate del fuoriclasse o poco ci manca; consiglio a Tadej Pogacar, se volesse chiudere il cerchio, completando il suo già importante palmares, di sostituire ogni tanto gli integratori con un bicchiere di questo Orange Wine che, personalmente, mi ha impressionato al pari di una vittoria del campione sloveno.