Recentemente, sfogliando una rivista di cui non ricordo il nome, mi sono imbattuto in uno dei quadri più conosciuti dell’artista newjorkese Andy Warhol, passato alla storia come celebrità di spicco e rappresentante della Pop Art. Capostipite di  quel  movimento che raggiunse il suo apice negli anni ’60 e che nacque come una rivolta contro le  tradizionali opinioni su cosa dovrebbe essere l'arte. I giovani artisti di quell’epoca si ribellarono a ciò che sentivano e che gli veniva insegnato alla scuola d'arte e a ciò che vedevano nei musei che non aveva nulla a che fare con le loro vite e con tutto quanto li circondava ogni giorno. Pertanto,  iniziarono a sviluppare una nuova corrente artistica prendendo spunto dalla pubblicità, dal mondo patinato di Hollywood, dalla musica e dai fumetti. 

Ripensando a Warhol, mi sono ricordato di una sua affermazione profetica datata 1968:

“ Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti”.

Contestualizzata in quel periodo poteva essere interpretata come un pensiero visionario che solo un’artista può avere, grazie ad una sensibilità non comune o come spesso dico io, una qualità che solo certi geni creativi hanno, al punto da riuscire a prevedere il futuro, come se riuscissero a fare viaggi nel tempo.   

Warhol, ha anticipato di almeno 50 anni l’attuale società odierna in cui l’apparire è più forte dell’essere. A pensarci bene, stiamo assistendo ad un vorticoso rincorrere il successo attraverso la creazione di ruoli e di nuovi figure “professionali” a tempo, in quanto inadatte a mantenere una certa sostenibilità. Quel che conta è farsi conoscere, sgomitando e facendosi largo con mezzi più o meno leciti per poter apparire a tutti i costi. Peccato che l’apparire dovrebbe essere la corrispondenza del proprio essere, altrimenti, prima o poi  ci si dovrà scontrare con una personalità che non è la nostra, ma che è stata creata ad hoc ed inevitabilmente si arriverà al punto di non capire più chi uno sia. Ma non solo. Nella società odierna è quasi impossibile vivere nell’anonimato e se qualcuno tenta di farlo viene tacciato per anticonformista, se va bene, ma più spesso come un disadattato, come un elemento di disturbo, una sorta di anti-progressista, chissà poi di quale progresso. 

Eppure le gallerie d’arte di tutto il mondo sono piene di meravigliose opere di pittori anonimi, i sacrari di militi ignoti che hanno dato la vita per il proprio paese e per la libertà e che dire delle beneficenze silenziose di anonimi filantropi e potremmo andare avanti all’infinito.

La visibilità, per come la intendiamo oggi, ma è stata così anche nel recente passato, ha il potere di influire sulla mente delle persone che si lasciano influenzare dal nome, dal marchio, dagli slogan, oggi dagli influencers e la propria vita e le conseguenti scelte vengono in qualche modo condizionate.

Se penso alla mia passione per il vino e al mondo che lo circonda e a quanto sopra citato, non posso non porre l’attenzione sulla netta diversità tra una degustazione programmata con etichette selezionate e ben visibili sia dei produttori che dei vini ed una degustazione alla cieca, o ancora meglio anonima dove è impossibile risalire al suo produttore. Nella prima, è inevitabile, anche per il miglior esperto, essere condizionati dal nome perdendo percentualmente una certa obiettività su quanto si vada a degustare. Un vino anonimo è spiazzante perché non hai alcun punto di riferimento, ma a parer mio è la sublimazione della vera essenza di un vino e della capacità introspettiva, quasi ascetica e pura di valutazione dello stesso.

E’ successo in una bellissima serata conviviale, a tema Chenin Blanc, nella quale il mio caro amico William, francese di Tour, ci ha deliziati con una chicca fuori programma, inaspettata e per questo ancor più gradita. Una bottiglia di Chenin Blanc, più precisamente un Montlouis sur Loire annata 1959, gradazione sconosciuta e produttore anonimo. 

Ancora impolverata, così come tolta da una vecchia cantina, è stata stappata utilizzando cavatappi a lamelle, cercando il più possibile di preservare il tappo consunto dal tempo. Livello sceso leggermente e la speranza di poter degustare un vino ancora vivo. Il tappo si è sfaldato in più parti, come era prevedibile, ma il contenuto, scaraffato con cautela in apposito decanter, intatto con un meraviglioso colore ambra con riflessi ramati  e profumi che a poco a poco si sono aperti. A volte le parole non riescono ad esprimere la bontà di un vino è questo è il caso perché si è trattato di un vero e proprio viaggio sensoriale che ha illuminato tutti i presenti. Il naso è davvero complesso e minerale; sprigiona frutta gialla surmatura, mela cotogna, albicocca, uvetta  e cachi, alternate a note floreali, foglie di tè e poi tanto miele. 

In bocca, nonostante l’età, è incredibilmente fresco e puro e pensare che questo sia un vino di 64 anni è semplicemente pazzesco. Un vino meditativo, mai stancante, a tratti elegante e con un’acidità ancora ben presente che è colei che lo bilancia armonicamente. Finale persistentemente lungo, che ha dell’eterno,  con una sottile  sensazione gustativa amaricante ben calibrata. 

Pura emozione, pura gioia. Un vino che, quasi per magia, si è dissolto alla nostra vista in breve tempo,  andando ad impregnare i nostri sensi e riempiendo un cassetto della nostra memoria cerebrale. 

Quello che mi porto dentro, a margine di questa fantastica degustazione è stata la capacità di concentrarmi unicamente sul vino, vivendo appieno la sua essenza, il suo essere, che in questo caso è anche il manifesto del suo apparire nella sua unicità e veridicità. Tutto il resto, a partire dalla bottiglia impolverata, da una labile parziale etichetta consunta ed illeggibile, dal possibile produttore è svanito nel nulla ancor prima di iniziare.  

Questo è il potere dell’anonimato, molto più forte di chi, a tutti i costi, lotta per la visibilità.

Alla prossima.