Il 18 dicembre 2023, in concomitanza con l’uscita del ventiquattresimo album Hackney Diamonds, ha festeggiato le 80 primavere uno dei più grandi chitarristi ancora viventi, nonché leggendario fondatore nel lontano 1962 della band più longeva di sempre. Lui è il “corsaro” Keith Richards, la band i Rolling Stones. Talentuoso e dotato di una forte personalità, oltre ad aver creato un binomio e un sodalizio perfetto con Mick Jagger, ha condotto una vita frenetica caratterizzata da eccessi con droghe (abbandonate nel 2006 per la bassa qualità), alcol, donne e le immancabili Marlboro (ha smesso di fumare da qualche anno). Insomma l’esatta impersonificazione di sesso droga & Rock’n’ Roll. Impossibile percorrere in poche righe gli oltre 60 anni di attività, ma personalmente, come suo fan, vorrei omaggiarlo ponendo in risalto un aspetto concettuale di un brano famosissimo e di un album uscito nel 1972.

Il brano è Honky Tonk Women del 1969 e sono certo di non essere smentito nell’asserire che Keith Richards lo esalti con uno dei riff più iconici della storia del Rock, pizzicando la sua Fender Telecaster 57 con solo 5 corde, facendo sembrare ogni piccolo riff un capolavoro di espressività e di genialità allo stesso tempo. Ogni volta che la risento ne rimango sempre affascinato.

L’album è Exile on Main Street, a mio parere il disco più sottovalutato e forse anche il meno conosciuto nella discografia delle pietre rotolanti, ma che, nonostante i 50 anni sulle spalle rappresenta il loro vero capolavoro musicale e forse uno dei più rappresentativi di tutta la storia del Rock. 

Nel febbraio del 1971 gli Stones, a causa di problemi fiscali, lasciarono l’Inghilterra ed esiliarono in Francia e più precisamente nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra, dove a Nellcote (vicino a Villefranche sur Mer) Keith Richards affitta una villa che durante la seconda guerra mondiale era stata quartier generale delle SS, tanto è vero che ritrovarono svastiche disseminate all’interno della stessa. A dire il vero la necessità di lasciare l’Inghilterra riguardava soprattutto Richards e le continue perquisizioni per la sua tossicodipendenza. Il soggiorno a Nellcote, luogo deputato per la registrazione del nuovo album, ben presto si trasformò in un ricettacolo di personaggi equivoci e di spacciatori che rifornivano la band ed in particolare Keith Richards e la compagna Anita Pallemberg, con massicce dosi di eroina. Nel frattempo Mick Jagger a maggio dello stesso anno sposa a Saint Tropez la modella nicaraguense Bianca Perez Moreno e tutto ciò segnerà un solco tra i due leader; da una parte Jagger era determinato a diventare una vera e propria icona  dello star system, mentre Richards, continuava imperterrito nel binomio di genio musicale e di sregolatezza con la droga pesante. Tutto ciò però non inficiò le lunghe sessions estive che si svolgevano praticamente di notte nella cantina della villa, umidissima e malsana e che generò quella sorta di suono sporco che traspare nell’ascolto dell’album. 

In Exile on Main Street, i Rolling Stones, per la prima volta, escono da un classico clichè di disco commerciale esaltando il loro rock nella forma più grezza e primordiale e a parer mio è l’espressione più vivida del Keith Richards pensiero ed in effetti tutto il disco è contaminato da quelle espressioni musicali alle quali si era sempre ispirato, vale a dire il blues, il soul, il gospel, il folk ed il rock’n’roll. La traccia che preferisco di questo LP è senza dubbio Let it Loose, che qualcuno ha definito come un piacevole esilio spirituale grazie al suo incedere melanconico, alla voce graffiante di Jagger e ai cori gospel inseriti all’interno e nel finale del brano e con la chitarra di Keith Richards che pare che parli e che virtuosamente accompagna uno di quei capolavori musicali che oggigiorno nessuno è più in grado di comporre. 

Come spesso accade, nei periodi più bui e difficili nascono gemme da incastonare e lo stesso Richards ammise che le migliori composizioni sono nate nei periodi di maggior dipendenza dalla droga ed è proprio lui che a Nellcote teneva i contatti con i “marsigliesi” che lo rifornivano di eroina pura. Nel gabinetto della villa Keith ha scritto questa formula: 97 a 3. Tre sono i grammi della polvere della prima busta che vanno mischiati con i 97 di lattosio della seconda. Un taglio fatto con assoluta precisione ogni qual volta spariva per almeno un’ora….

Rivedendo i filmati e le immagini dell’epoca risalenti al periodo di Nellcote, non ho potuto fare a meno di soffermarmi su quelle foto che ritraevano Keith, Anita e Jagger a tavola e un po’ sfuocate compaiono quasi sempre, oltre a bottiglie dell’immancabile J.D (Jack Daniels), anche bottiglie di vino dalle etichette un po’ sfuocate. Mi auguro che Richards, come per la droga, sia stato altrettanto pignolo e meticoloso con dovizia di scelta sui vini da consumare e non ho dubbi nell’asserire che avrebbe potuto rifornirsi di un grande vino di queste terre, vale a dire il leggendario Palette Blanc di Chateau Simone, uno dei grandi vini bianchi di Francia.

La storia di Chateau Simone, immerso in un piccolo angolo provenzale, a due passi da Aix-en-Provence, risale a scritti ritrovati e datati 1552; all’epoca la tenuta apparteneva ai monaci dei Grands-Carmes d’Aix, che laboriosamente scavarono le cantine dello chateau tra il XV e il XVI secolo. Lo Chateau, in origine prese il nome da uno dei precedenti proprietari, tale Madame de Simone, prima di passare di mano agli ecclesiastici, che segnarono le prime tracce della viticoltura di queste zone provenzali. Oggi la proprietà è in mano alla famiglia Rougier da 7 generazioni, da quando ne prese le redini nel lontano 1830. Alla guida della tenuta si sono alternate diverse figure carismatiche, una su tutte Jean Rougier, che, susseguito ad Albert Rougier che aveva avuto il difficile compito di reimpiantare le viti dopo la devastazione della fillossera, nel 1946 mise insieme un dossier per ottenere la micro-appellation Palette, una delle più piccole di tutta la Francia. 

Un vino che nasce e cresce su terreni collinari calcarei e rappresenta uno dei grandi vini bianchi mediterranei; viticoltura biologica da sempre, assenza di erbicidi o prodotti chimici sul terreno, lenta pressatura, fermentazione con lieviti indigeni, vinificazione e affinamento per 20 mesi in tini e poi in botti sono il credo centenario di questa azienda. 

Ma veniamo alla degustazione di questo Palette Blanc- Chateau Simone annata 2019 di 14,0° vol. un blend di Clairette (80%), Grenache Blanc (10%) Boubolenc (5%), Ugni Blanc (3%) e Moscato bianco (2%), prodotto da viti di oltre 50 anni di età, che si apre cromaticamente con un meraviglioso color oro antico, limpido e uniforme, un biglietto da visita che può presagire solo qualcosa di assolutamente speciale.

Atteso, una volta versato e roteato più volte nell’ampio balloon emana iniziali sentori di solvente, unici ed interessanti ed a seguire si apre con un ventaglio olfattivo di frutta tropicale. Lasciato ossigenare ulteriormente si presentano in sequenza, quasi musicale, pompelmo, miele, fieno appena tagliato e sul finale accenni balsamici di aghi e resina di pino. 

In bocca è assolutamente sontuoso, a tratti denota una certa cremosità ed è altrettanto salivante al punto di indurti ad un altro immediato sorso. A livello gustativo, emergono al palato i rimandi di frutta tropicale ed in parte di pompelmo; sensualissimo ed elegante, ma allo stesso complesso, con una struttura notevole ed una mineralità debordante ed un finale di travolgente passione, persistentemente lungo e con un retrogusto che ha dell’amaricante, di noci e quasi finemente legnoso. Il grado alcolico non si avverte nell’immediato, il vino è fresco e non dà alcuna sensazione di calore. 

A mio avviso degustandolo ci si imbatte in un piccolo capolavoro; un vino che ti conquista subito, che ti seduce e che ti inebria e che al pari di una droga lascia una traccia mnemonica sul cervello al punto da indurti a continuare a sorseggiarlo creandoti una vera e propria dipendenza. 

A volte mi chiedo come Keith Richards & company riescano a suonare e cantare ancora così bene e l’ultimo album, che ho appena acquistato, a mio parere è uno dei migliori della band degli ultimi 40 anni.

Non so se abbiano fatto un patto con il diavolo o se più semplicemente si riforniscono di questo Chateau Simone…..io, intanto, mentre stendo queste mie impressioni sorseggio con delicatezza un po’ di Palette Blanc, lasciandomi cullare dalle note di Let it Loose. Due capolavori in un colpo solo…..cosa volete di più dalla vita!!! Alla prossima……