Sono appassionato di arte pittorica e in altre recensioni non ho mancato di svelare che il mio punto di riferimento è da sempre Michelangelo Merisi detto “il Caravaggio”, del quale sono innamorato della rappresentazione nelle sue opere degli stati umani in ogni loro forma, sia fisica che mentale attraverso un geniale contrasto di luci ed ombre, in grado di esaltare sempre la drammaticità della scena. Talvolta mi piace curiosare in internet alla ricerca di  quadri che rappresentano il vino e ce ne sono diversi, a cominciare dal Bacco proprio di Caravaggio ed a seguire Il bevitore di Paul Cèzanne, oppure La colazione dei canottieri di Renoir o ancora La bevitrice di Toulouse-Lautrec e La bottiglia di vino di Pablo Picasso, tanto per citarne alcuni tra i più noti, ma il quadro più emblematico che sia riuscito a suscitarmi quell’interesse tale da spingermi ad approfondirne il significato è senza dubbio La bottiglia di vino di Joan Mirò. Spagnolo di Barcellona, nato alla fine del XIX secolo, viene accostato principalmente alla corrente francese dell’avanguardia surrealista di cui ne fece parte dal 1924 al 1929; la sua arte è stata alimentata da influenze relative alle pitture primitive rupestri, a quelle africane e a quelle cattoliche catalane, ma la sua più grande fonte di ispirazione furono le opere dei suoi colleghi surrealisti e del maestro Picasso, del quale ne carpisce alcune tendenze cubiste. Il periodo avanguardista lo vede esprimere, a livello pittorico, un mondo favolistico e prettamente onirico, fantastico, immaginario a tratti irreale e visionario e quindi in definitiva surreale. Nelle sue opere traspare con evidenza un’ispirazione all’inconscio dell’uomo che ritiene come il grado più profondo e più vero della realtà, e di conseguenza a tutte le sue manifestazioni, dai sogni, all’alienazione mentale e alla trance mediatica. Ne è testimone il suo quadro la bottiglia di vino del 1924 che attesta indissolubilmente il connubio arte/vino in chiave surrealista e in un contesto di evidente astrattismo. Un quadro che innanzitutto non ha confini e dove l’unico elemento legato alla realtà è la bottiglia di vino, di dimensioni particolari, quasi simile ad un Magnum ma con un collo molto più assottigliato rispetto al normale, inserita in un contesto in cui si mostrano in bella evidenza creature curiose, come l’insetto dalle ali aranciate ed un fantomatico serpente dotato di baffi e di un occhio improponibile.

Particolare la scritta sull’etichetta della bottiglia, riconoscibile in VI che, secondo i critici, può assumere il duplice significato di vino (vin) e vita (vie) e che comunque diventa un chiaro riferimento alla metafora tra arte e vita, uno degli aspetti concettuali del movimento surrealista.

Quello che però, a parer mio, disorienta ed affascina nel quadro è l’accostamento contrapposto di due dimensioni ben precise, quella figurativa e quella astrattista. La prima riguarda la rappresentazione di immagini riconoscibili del mondo intorno a noi, in questo caso la bottiglia, nell’altra una distorsione della realtà, con creature immaginarie e stilizzate di difficile comprensione. Da ciò si può desumere che l’astrattismo non si possa comprendere completamente perché è un po’ come la natura che, a volte, evoca fenomeni che neanche la scienza riesce a spiegare perché vanno oltre le nostre conoscenze. A questo punto cerco di spingermi un po’ oltre pensando che se l’astrattismo è simile alla natura, allora la dimensione astrattista di questo quadro può essere paragonata al vino che oltre ad essere un’opera d’arte e quindi figurativa è anche a volte un mistero della natura e quindi molto più incline ad una dimensione astrattista. Se poi volessimo esagerare, possiamo sentenziare che  alcuni vini sono talmente iconici, immortali ed eterni da riuscire ad eliminare la barriera spazio/tempo al punto da essere inconsciamente catapultati in una dimensione onirica e questo è il messaggio che Joan Mirò penso abbia voluto trasmettere con il suo quadro.

A volte riesco a raggiungere, anche per breve tempo, questa dimensione astrattista con l’assaggio di vini che riescono a farti viaggiare in un mondo parallelo e fantastico. Mi è capitato con la degustazione dello Chenin Blanc Les Vieilles Vignes des Blanderies annata 2015 -Ferme de la Sansonniere (Mark Angeli) di 14,0° vol. ed è stato praticamente un viaggio quasi surreale……

Nato da madre corsa e padre marsigliese, Mark Angeli, compra nel 1989 il Domaine de la Sansonnière, in Loira, dove ha creato un piccolo paradiso di altri tempi: alleva vacche "pois noire" bretoni per avere un letame di assoluta qualità, coltiva due ettari a grano e 8 ettari a vigneto; utilizza elettricità solare a pannelli fotovoltaici e un trattore funzionante con olio di girasole da lui stesso coltivato. Dà l’impressione di essere un sognatore, un visionario, quasi venisse dal futuro, anche se è considerato  uno dei migliori produttori di questa regione. Inutile dire che utilizza metodi di coltivazione biodinamica; le vigne crescono liberamente senza alcun supporto ligneo, fil di ferro e via discorrendo, di modo che possano godere completamente di un'illuminazione permanente sui 2 lati.

Questo Chenin nasce da un vigneto di mezzo ettaro di 65 anni su suolo scistoso con densità di 3.000 ceppi e con tipo impianto ad Alberello;

Vinificazione e affinamento: pressatura soffice, fermentazione spontanea e affinamento per 24 mesi sulle fecce fini in doppie barrique usate di rovere.

Le uve, accuratamente selezionate alla loro giusta maturazione, vengono pressate in due vecchi torchi verticali che danno un mosto assolutamente perfetto; l'estrazione del succo avviene in dolcezza, per la durata di 24 ore. Si evitano diraspatura, filtrazioni, chiarifiche ed aggiunta di solforosa: solo lunghe fermentazioni in anfore o botti di rovere. 

Ma, come sempre apprestiamoci alle note di degustazione:

Stappato 3 ore prima di essere servito e versato in ampio balloon, dopo una leggera riduzione che si dissolve in brevissimo tempo, analizzo questo Chenin che visivamente è qualcosa di magico, perché si  mostra in tutta  la sua bellezza con un color oro antico leggermente velato, quasi primordiale, al punto da rievocare la misteriosa e leggendaria Eldorado….al naso , iniziali e nitidi sentori fruttati di mela cotogna ed albicocca matura vengono quasi immediatamente sopraffatti da una nota lasciva di miele ed a seguire uva passa e canditi, per poi virare su nuances speziate di zenzero che solleticano le mucose nasali e sul finale qualche accenno vagamente balsamico ma decisamente tenue.

In bocca è un capolavoro!!! Resto sorpreso dalla spettacolarità di un vino che quasi si mastica in un mix di fluidità viscosa di dolcezza e dalla  calibratura sorprendente di un’acidità sferzante, ma precisa, quasi matematica. 

Corrispondenza naso/bocca didattica e mineralità in abbondanza, ma è la sapidità che emerge dopo l’iniziale dolcezza a farla da padrona , tanto che è come se si fosse attraversati da una brezza marina salmastra e sensuale allo stesso tempo. Finale davvero lungo e persistenza che ha dell’eterno. 

Nei miei 25 anni di passione per il vino, questo è senza dubbio lo Chenin che più di ogni altro ha saputo darmi emozioni e sensazioni che mi hanno travolto al punto da ritrovarmi, quasi per incanto, dentro nel quadro di Mirò in una dimensione fantastica a metà tra il reale e l’astrattismo coinvolgendomi così tanto da rasentare un punto di non ritorno alla vita reale.