In altre recensioni, ho confessato che la materia che ho sempre preferito a scuola era Storia e nello specifico i grandi condottieri susseguitisi nel corso dei millenni. Uno di quelli che più mi ha affascinato sin dalle elementari è stato senza dubbio Annibale Barca, forse il più grande generale e stratega dei suoi tempi. Quello che stupì l’Angelo bambino, come credo tutti quelli che l’hanno studiato, è l’essere riuscito ad attraversare le alpi con gli elefanti. Intorno al 220 a.C. il controllo del Mediterraneo innescò guerre tra l’Impero Romano e i Cartaginesi, i quali partendo dalla Spagna, al comando di Annibale, decisero di portare la guerra direttamente in Italia, valicando le Alpi dal lato occidentale, addentrandosi non lontano dalla convergenza dei fiumi Isere e Druenza e utilizzando il Col delle Traversette a 2.950 metri s.l.m. o il passo del piccolo San Bernardino a poco più di 2.150 metri s.l.m. per entrare nel territorio italiano. Il suo esercito, secondo le testimonianze degli storici dell’epoca, Polibio e Tito Livio era composto da 38.000 fanti, 8.000 cavalieri e 37 elefanti. 

Fu una vera e propria impresa, al punto che recentemente ha scatenato una teoria del complotto sul surriscaldamento globale, legata alla concezione moderna che sia impossibile valicare le alpi con al seguito 37 elefanti e che quindi qualcuno ritenga che nel 218 a.C. le temperature erano decisamente superiori alle attuali, scarsi o inesistenti i ghiacciai e non c’erano auto né industrie a riempire di CO2 l’atmosfera. Era semplicemente uno dei tanti riscaldamenti periodici che hanno interessato la Terra fin dalle sue origini….ma questa è un’altra storia. 

Nell’avanzata delle truppe, dal Nord dell’Italia verso Roma, un’importante testimonianza ci viene fornita da Polibio, relativamente alla grande vittoria di Annibale a Canne, durante la seconda guerra Punica e al territorio a ridosso dell’area Piceno-Aprutina, ossia l’attuale provincia di Teramo, che come osservava lo storico era rinomata per la qualità dei suoi vini che avevano guarito i feriti e ritemprato gli uomini in arme. Ecco alcuni passi: 

 “…accampato presso l’Adriatico, in una regione che eccelleva per prodotti di ogni tipo, dedicava grande attenzione al recupero delle forze e alla cura degli uomini, e non meno anche dei cavalli… Annibale, spostando ogni volta il campo di poco, si tratteneva sulla costa adriatica, e facendo lavare i cavalli con vino vecchio, per la grande quantità che ce n’era, ne curò lo scorbuto e le altre malattie, e analogamente tra gli uomini guarì i feriti, e gli altri li mise in forze, pronti per le operazioni future”. (Storie, Libro terzo, capitoli 87 e 88).

Il vino in questione è senza dubbio il Montepulciano d’Abruzzo, un rosso robusto e intenso, con note di frutta nera, tannico e speziato, complesso e strutturato, un vino di corpo e di sostanza.

Canne fu l’ultima grande battaglia vinta da Annibale e dal suo esercito, ma l’epilogo che tutti conosciamo si consumò a Zama dove il generale Cartaginese dovette dire addio ai sogni di gloria, perdendo definitivamente le guerre Puniche ed il relativo controllo sul mediterraneo. 

Da un buon intenditore di vino come lui, avesse vinto la guerra, avrebbe di certo brindato, ma anziché “stappare” un Montepulciano, avrebbe sicuramente festeggiato la vittoria con un vino bianco e magari restando in territorio abruzzese un Trebbiano e se poi fosse stato quello di Emidio Pepe allora avrebbe aggiunto gloria alla sua fama certificata.

Emidio Pepe, classe 1932, uno degli ultimi grandi vecchi del vino italiano,  fonda la sua azienda nel 1964, dopo aver affiancato suo padre e soprattutto, suo nonno che faceva vino a casa Pepe sin dal 1899. Può essere considerato il progenitore in senso moderno del Trebbiano e del Montepulciano d’Abruzzo per aver creduto nelle grandissime potenzialità di questi due vitigni dedicando tutta la sua vita a produrli e a promuoverli al di fuori dei confini regionali, certificandone la loro incredibile longevità e valorizzando un territorio sconosciuto al mondo enologico. L’azienda è situata a Torano Nuovo in provincia di Teramo e conta 17 ettari che si estendono tutti attorno alla cantina, coltivati con l’antico sistema della Pergola e impiantati con il vecchio metodo dell’innesto in campo che consiste nel piantare il portainnesto lasciando concentrare l’apparato radicale nel raggiungere il nutrimento in profondità senza distrazioni nello sviluppo del frutto.

Mario Soldati, l’autore, a mio modesto parere del miglior libro sul vino in Italia (Vino al vino – edito da Mondadori), nel 1976 descriveva Emidio Pepe in questo modo: “….Emidio Pepe lavora il vino con un metodo rigorosamente tradizionale e famigliare: lo aiutano suo padre Giuseppe, e la moglie, le tre figlie ancora piccole e qualche ragazza del paese….”Pepe ,intervistato da Soldati, tra le altre cose sentenziava:”….Il mio vino è buono anche vecchio di dieci anni. Invece, nelle cooperative delle zone qui intorno, non lo si invecchia mai, ma si solfita, si refrigera, si filtra, si pastorizza e quello è un vino che fa male….”. 

Lo stesso Soldati, asserisce nel suo libro che il Trebbiano di Teramo è il migliore bianco di tutti gli Abruzzi e che quello di Emidio Pepe pare di una qualità eccezionale.

Non perdo tempo, scendo in cantina e con delicatezza estraggo una bottiglia di Trebbiano d’Abruzzo dell’Azienda Agricola Bio “Emidio Pepe” annata 2012 di 12,5° vol. e nei dovuti tempi mi accingo alla degustazione. 

Un vino, così come riportato nel retro etichetta, ottenuto da uve Trebbiano coltivate secondo i metodi dell’agricoltura biologica su 5 ettari di vigneto in collina a 240 metri. s.l.m. L’uva viene diraspata a mano, fermenta naturalmente senza l’utilizzo di lieviti selezionati. Per mantenere inalterate le sue caratteristiche organolettiche il vino non viene filtrato, ma decantato a mano da una bottiglia all’altra, come si è sempre fatto e già riportato come caratteristica peculiare nel libro di Mario Soldati, il che attesta che nel corso dei decenni si è mantenuto fede alla tradizione. Si consiglia, per questo, di non fargli subire shock termici rinfrescandolo per qualche minuto in un secchiello con ghiaccio prima di degustarlo. Mi attengo scrupolosamente agli ordini e, una volta stappato due ore prima di essere servito e versato in ampio balloon si presenta cromaticamente di un bel colore oro zecchino, come quello dei dobloni spagnoli risplendenti al sole; il naso è decisamente complesso con iniziali sentori idrocarburici, non così evidenti come in un Riesling della Mosella, ma più tendenti al petrolio, per poi virare su accenni di fiori bianchi e lasciato opportunamente ossigenare fa emergere note fruttate di nettarina, di mela verde ed a seguire miele, ma non dolcissimo e sul finale note di caramello. 

In bocca entra un po’ oleoso e salivante e dà una certa sensazione di cremosità, forse un po’ eccessiva, ma di sicuro intrigante. Acidità non così pronunciata, corrispondenza naso/bocca di tutto rispetto, ma è il notevole corollario salino che fa da padrone su di una persistenza aromatica davvero lunga e dominata da un retrogusto un po’ sauvage, tendente decisamente all’erbaceo. 

Un vino profondo ed appagante e nel contempo per taluni aspetti elegante e raffinato, impreziosito da una serie infinita di sfaccettature che si presentano nel tempo lasciando ed aspettando con pazienza il vino nel bicchiere da degustazione. 

Acquistare questa annata oggi ha il suo prezzo non indifferente, ma a mio modo di vedere lo vale tutto.

Che dire, Annibale non vinse le guerre Puniche e non potè inebriarsi di questo nettare, ma io che ben 43 anni fa, in prima ragioneria, nell’interrogazione di storia presi un bel 9 per aver dissertato sugli errori tattici del generale nella battaglia di Zama, al di fuori di quanto fosse riportato nel libro di Storia, brindo al mio personale successo e soprattutto ad un vino e ad un uomo che hanno fatto la storia enologica italiana.