La fine dell’estate e delle tanto agognate ferie, segna il ritorno alla vita quotidiana e ciò viene vissuto come un passaggio da una fase prettamente di svago a quella più pesante delle responsabilità. Molte persone la vivono come una sorte di depressione, accompagnata da sintomi di cattivo umore, di apatia e di insostenibile rassegnazione. Personalmente non rientro in questa categoria. Uno dei mesi che preferisco in assoluto è settembre, da sempre sinonimo di ripartenza e rinascita.

Lo considero una sorta di secondo capodanno, non solo perché rappresenta la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, ma perché porta sempre nuovi propositi, nuovi progetti ed il desiderio recondito di migliorare qualche aspetto della propria vita, con l’intento di ripartire, lasciando alle spalle qualche errore o qualche manchevolezza che ha appesantito il periodo precedente.

Nonostante le ore di luce del giorno diminuiscano, le foglie ingialliscono cascando dagli alberi scossi da una brezza di vento, nell’autunno ci trovo tanta dolcezza ed una vena di nostalgica malinconia e i ricordi si susseguono al punto di percepirne non solo le immagini scolpite nella memoria, ma addirittura gli odori e i sapori.

Chi ha più di 50 anni, come il sottoscritto, saprà che iniziavamo la ripresa scolastica il primo ottobre e ho il fulgido ricordo delle elementari (ora scuola primaria), della cartella sulle spalle, dell’astuccio che in principio era sempre immacolato, dei pastelli colorati (la chimera erano i Caran d’Ache) e delle pagine intonse del sussidiario, il cui profumo, così come descritto da un famoso scrittore era come quello di una michetta appena sfornata, perché la cultura è buona come il pane, e che io  ho sempre amato trovandoci un misto di note erbose, con una punta di acido, un leggero sentore di vaniglia e con un sottofondo di stantio. Un’unica maestra, ed era bello ritrovarsela dopo l’estate, come una sorta di continuazione e in tutto ciò mi sentivo immerso in una dimensione di rinascita, di passione, di educazione e soprattutto di semplicità.

Già, quella semplicità che nel tempo si è spenta lentamente come il braciere autunnale di un camino che, da caldo e accogliente si è ritrovato spento e freddo. 

Oggi tutto è più complicato, oggi bisogna fare sensazione ed il business soggioga le nostre menti, ma per fortuna c’è chi ancora nella semplicità riesce a dar vita a qualcosa che si è perso nel tempo. Qualcuno sostiene che la semplicità dipende dagli occhi che la guardano ed io l’ho potuta vedere imbattendomi in Isabelle Brossard, vigneronne e proprietaria dello Chateau de Pravins, situato nel sud del Beaujolais che ho recentemente girovagato, non solo per visitare le zone dei cru, al nord, ma anche le lande che producono i beaujolais villages che hanno riservato delle belle sorprese. 

Entrando dal grande portico del castello di Pravins, si entra in un altro mondo, è come se ci fosse una sorta di stargate che ti proietta in epoca medioevale e mi sono sentito come un viandante in cerca di ristoro nel momento esatto in cui  la madame, da una finestra al secondo piano  mi ha accolto invitandomi ad attenderla.

Vestita con un abito bianco, di lino, Isabelle, donna sulla settantina ha ripercorso la storia enologica dello Chateau precisandomi che ha ritrovato scritti del 1200 in cui si menziona che la gente veniva a pigiare il vino a casa del signor de la Bessée, al quale apparteneva all'epoca il castello residenziale feudale. Nel 1984 Isabelle ha rilevato lo Chateau, convertendosi all’agricoltura biologica con certificazione Demeter ottenuta nel 2010 e recentemente sono state avviate le procedure di certificazione biodinamica.

Château de Pravins è una tenuta di 8 ettari, di cui 5 coltivati a vigneto e 3 a parco, situata a Blacé, nel cuore del Beaujolais, culla e mecca della cultura Gamay. I terreni di Pravins, fatti di argilla e limo, possono produrre anche ottimi vini bianchi. Questo è il motivo per cui nel 2009 sono stati piantati 57 acri di vitigno Chardonnay per diversificare la produzione ed è per questo che ho voluto degustare ed acquistare il loro Beaujolais blanc “La source altera” annata 2020 di 13,5°vol, Chardonnay in purezza che versato nel classico bicchiere da degustazione si presenta di un bel colore dorato tenue, con leggeri riflessi verdolini sull’unghia, uniformemente limpido e brillante.

Al naso emergono immediate note fruttate di albicocca e agrumate di limone maturo ed ananas, a seguire accenni floreali di fiori di tiglio, leggermente boisè  e sul finale nuances tostate di noisette.

In bocca è un vino che definirei, nella sua semplicità, giocoso, delizioso e anche un bel po’ ruffiano, ma allo stesso tempo armoniosamente strutturato, con una bella freschezza, una mineralità evidente e un corredo salino come piace a me e con buona persistenza gustativa. Un vino che invoglia sorso dopo sorso al punto che il contenuto nella bottiglia si dissolve in poco tempo.

Rapporto qualità/prezzo davvero imbattibile. 

Un vino che potrebbe essere considerato classicamente estivo, da aperitivo, ma anche abbinabile tranquillamente a tutto pasto e che personalmente, nella sua semplicità e naturalità, diventa l’entry level di un nuovo periodo di rinascita che ogni anno, come per magia si ripresenta a supporto della nostra esistenza.