Le passioni che coltiviamo, in qualsiasi campo, dall’arte, allo sport, al cinema e anche al vino, ci spingono sovente a stilare una sorta di classifica che altro non è quella che più ci rappresenta nelle nostre inclinazioni, simpatie, gusti e nei tentativi (vani) di emulazione. Se penso all’arte ed in particolare quella pittorica, sul podio più alto metto in assoluto quel genio di Caravaggio, ma il gradino sotto lo occupa un artista che a molti farà torcere il naso, ma che mi ha sempre affascinato per l’espressività dei suoi quadri, vale a dire Johannes Vermeer. Olandese di Delft, nato nel 1632 da una famiglia di tessitori di caffa, un tipo di seta per mobili e tende, manifesta sin dalla giovane età un talento pittorico che viene sviluppato nel periodo di sei anni di apprendistato con un maestro appartenente alla gilda di San Luca, una delle corporazioni di artisti ed artigiani attive soprattutto durante il periodo barocco nelle Fiandre e in Olanda. La morte prematura del padre, lo lasciò col resto della famiglia in una precaria situazione economica ed egli ereditò il commercio dei quadri (l’altra attività di famiglia) e la gestione di una locanda. A 20 anni, quasi per necessità, sposò (convertendosi al cristianesimo solo qualche giorno prima del matrimonio) Catharina Bolnes, una giovane proveniente da una ricca famiglia cattolica, dalla quale, nei 23 anni di matrimonio ebbe ben 15 figli. L’abbondanza di bocche da sfamare fece vivere Vermeer sempre nell’incertezza economica, dovendo spesso ricorrere a prestiti che venivano saldati, a fatica, con la vendita dei suoi quadri. L’evoluzione pittorica dell’artista fu rapida e decisa, adattando le esigenze espressive di scena di vita quotidiana, facendone emergere il senso dell’universale. Sembrerebbe che abbia dipinto non più di una sessantina di quadri, la cui metà fu acquistata da un influente cittadino di Delft, tale Pieter van Ruijven. Non visse così a lungo per gustarsi la notorietà artistica, in quanto la lunga e rovinosa guerra contro la Francia, non gli permise di vendere la propria arte, ne quella dei quadri di altri maestri ed il pesante onere gravato dai figli lo condussero ad una tale prostrazione da portarlo alla morte nel giro di poco tempo. 

Qualcuno ha detto: “L’amore inespresso è come il vino tenuto nella bottiglia: non placa la sete.”.

Questo aforisma mi ha fatto tornare alla mente un dipinto del Vermeer e più precisamente “Giovane donna con bicchiere di vino” datato 1659 circa. 

Sullo sfondo un uomo con atteggiamento svogliato e quasi rassegnato, sorregge la testa con la mano, mentre una leggiadra donna sorride ad un altro uomo che, in modo premuroso, le offre un bicchiere di vino bianco. Tale scena era un must tra i poeti del XVII secolo, che basavano le proprie opere sull’amore non corrisposto e Vermeer ne rappresenta estrosamente  la realtà su tela. 

Tra l’altro, il pittore introdusse un commento morale nella finestra aperta alla sinistra dei protagonisti, con la raffigurazione della temperanza, ovvero di quella virtù che consiste nel regolare con saggezza ed equilibrio il soddisfacimento dei bisogni e degli appetiti naturali.

Nella nostra vita è capitato di non aver corrisposto l’amore di qualcuno/a o per qualcosa e non c’è stato bisogno di essere temperanti, senza lasciarsi andare alla necessità di soddisfare chissà quali appetiti.

Personalmente mi è successo di non corrispondere alcuna passione per un vino che, letture, commenti, recensioni, mi avevano creato delle aspettative tali da essermene ingannevolmente innamorato prima ancora di averlo posseduto.

Mi riferisco al viaggio nel vino del 2010 in terra spagnola, nella Rioja, nella visita alla Bodega Lopez de Heredia e nell’assaggio della loro punta di diamante, quel Vina Tondonia Reserva Blanco nell’ annata 1991, che, all’epoca mi diede queste sensazioni:

…al naso è un vino che non si apre, non sento particolari profumi; roteo più volte il vino nel bicchiere ma il risultato non cambia. Sono alquanto dubbioso, quasi esterrefatto, è un vino che mi disorienta e non riesco a comprendere come sia possibile che un bianco con quasi 20 anni di invecchiamento sia ancora così giovane e secco…”

Qualcun altro ha anche detto che: “Chi disprezza…ama!”

Nel 2010, a margine della visita alla cantina, nella sala adibita a degustazione, ho davvero disprezzato questo vino, ma a distanza di altri 13 anni, ho dovuto ricredermi su quell’amore, a torto inespresso.

La Bodega, è la più antica di tutta la Rioja con i suoi 146 anni di storia, fondata nel 1877 da Don Rafael Lopez de Heredia y Landeta; fu in concomitanza con la calata dei vignerons bordolesi giunti in terra iberica per risolvere il problema causato dalla fillossera, cercando terreni alternativi per la produzione di vino, che lo spronarono a pianificare e costruire quello che oggi è visibile andandoli a visitare. I loro vini sono diventati veri e propri gioielli, apprezzati dai critici ed appassionati di vino; vini che rappresentano il punto di riferimento della tradizione nel classico stile riojano, come il loro Vina Tondonia Reserva Blanco annata 1991 di  12,0° vol., un blend dei vitigni Viura al 90% e Malvasia per il restante 10% che viene fermentato in enormi “tinas” di quercia vecchie di decenni prima di essere travasato in altrettante botti vecchie di rovere americano e invecchiato per anni prima dell’imbottigliamento, e a quel punto, invecchia ancora un po’. 

Aperto 6 ore prima di essere degustato, si presenta cromaticamente di un bel colore ambra antica, brillante e limpido su tutta la superficie; il naso è notevole al punto che stappato, ha emanato immediatamente sentori complessi che si sono evoluti con l’ossigenazione e parliamo di frutta a polpa bianca, pesca nettarina e pera, ma anche esotica di mango, oltre ad accenni agrumati di lime. A seguire nuances floreali di caprifoglio, per poi virare su mela disidratata, erbe aromatiche e sul finale chiare sensazioni resinose, di cera e di smalto.

In bocca entra alquanto salivante, ha perso molto di  quella sensazione di vino secco avvertita tredici anni prima ed è attraversato da un’acidità vivace e da una complessità aromatica davvero sorprendente. Il finale poi,  è caratterizzato da sensazioni gustative di zenzero, spezie e miele selvatico. Elegante e mai opulento, decisamente persistente, lascia un retrogusto di vaniglia leggermente tostata.

Un vino che va degustato ad una temperatura di 14/16 gradi, con i giusti tempi e la giusta concentrazione. 

Che dire, l’amore inespresso a volte può presentarsi come un dogma da non prendersi sempre per vero e giusto, senza un esame critico o una mera discussione; la vita insegna, come diceva una vecchia canzone di Venditti che, certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano…… 

Io intanto mi verso un altro po’ di questo nettare, tanto per non sbagliare!!!