Da anni abbonato alla piattaforma Netflix, oltre alla visione dei films, mi sono interessato saltuariamente anche a qualche serie, una su tutte “The Last Kingdom” ambientata sul finire del IX° secolo d.C., quando l’Inghilterra era divisa in sette regni separati e quello del Wessex rimaneva l’ultima roccaforte importante contro gli invasori danesi. C’è una frase a margine dell’introduzione di ogni episodio che mi risuona parecchie volte in testa: “Il fato governa ogni cosa.”

Queste parole, che accompagnano il protagonista Uhtred di Bebbanburg nelle sue peripezie, ci ricordano che nulla accade per caso e che le decisioni prese di ogni uomo, positive o negative che siano, hanno delle conseguenze.

Pensando al fato, inevitabilmente mi sovviene, per assonanza, anche un altro sostantivo: il destino. Ma esiste differenza tra fato e destino?

Sono due concetti diversi che sovente sono utilizzati indifferentemente e in modo sovrapposto, tant’è che nel pensiero comune entrambi si possano interscambiare, pensando, a torto, che il fato sia un gergo arcaico per identificare il destino. Nulla di tutto ciò.

Possiamo asserire che il termine “fato”, dal latino fatum, si sia sviluppato in un contesto quasi mitologico e che sta a significare “ciò che è stato annunciato/prestabilito”. Può essere considerato come un ordine calato dall’alto, quasi divinatorio, al quale è inevitabile sottrarsi ed al quale è impossibile non obbedire. Il concetto è basato sul credo che esista un ordine prefissato nell’universo e circostanze che contano al di fuori del nostro controllo ed in parte della nostra comprensione per come accadono.

Quante volte nel lessico comune abbiamo sentito dire “è stata una fatalità”, oppure più semplicemente si parla di fatalismo associato inequivocabilmente ad uno stato di evidente rassegnazione. 

Il concetto di destino, ha una connotazione diversa, nel senso che, a differenza del fato, lo stato di rassegnazione può essere governato dall’uomo trasformandolo con comportamenti che hanno lo scopo di cambiare il corso delle cose. Sintetizzando, si può dire che col fato si è succubi e col destino si è artefici della propria sorte; nel primo caso ad agire è il fato, nel secondo il destino. 

Ci sono a volte situazioni ed episodi in cui è difficile discernere questi concetti e in particolare mi riferisco a quanto è accaduto in un piccolo villaggio della Valle de la Marne, in Champagne, nella zona enologicamente denominata Montagne de Reims ed esattamente a Vandières, borgo abitato da non più di 350 anime e da alcuni recoultant-manipoulant (artigiani del vino), tra i quali spicca il Domaine Denis Salomon.

Da 150 anni presenti sul territorio, iniziando dal trisnonno Albert, originario della Savoia, che si trasferì a Vandières, sposando nel 1875 la figlia di un vigneron e divenendo sindaco nel 1925. Dapprima il figlio Georges e poi il nipote Adrien, cominciarono a coltivare uva conferendola alla cooperativa della zona e solo dal 1984 decisero di uscirne vinificando e commercializzando in proprio lo Champagne prodotto.

Nel 1985, muore il nonno; una data apparentemente rientrante nella caducità della nostra esistenza, si rivela parecchio anni più tardi, davvero particolare.

Nel 2019, riassettando la vecchia cantina dell’anziano deceduto, i famigliari trovano, alla stregua di un vero e proprio tesoro, seminascoste in un angolo buio, qualche centinaio di bottiglie di champagne dell’annata 1985, che il nonno aveva messo ad affinare, probabilmente ad uso esclusivo e personale.

Se sia stato il fato o il destino, è una domanda che la famiglia non si è posta, ma ha badato più semplicemente ad analizzare lo Champagne, rimasto sur lattes (fecce fini) per 34 anni, dando origine ad un autolisi interminabile e rappresentando un’anomalia ed un’eccezionalità allo stresso tempo. 

A questo autentico miracolo di-Vino è stato dato il nome di Genèse (Genesi), ovvero rappresenta la nascita di qualcosa di nuovo, l’origine di tutto quello che l’azienda ha sviluppato dopo e nella fattispecie, potremmo identificare questo Champagne come la prima vera annata di vinificazione dei Salomon.

Questo 1985 non può essere dichiarato come millesime, ma singola annata perché non avevano i vini di riserva degli anni precedenti; parliamo di 100% Pinot Meunier, unico vitigno allevato in quegli anni dal domaine.

Uno Champagne, come riportato sul retro etichetta degorgiato à la volèe il 16 novembre 2020 e poi messo in vendita in 160 esemplari.

Mi sono sentito un privilegiato, o forse un predestinato, nell’essermi impossessato della bottiglia nr. 120 e per questo devo ringraziare pubblicamente l’amico Dario Giorgi, fine ed eclettico champagnista, nonché sommo intenditore e managing Director della Sparkling-World (sparkling-world.com), società di import-export di champagne con sede a Reims, che si è ricordato di un appassionato come me, sempre alla ricerca di vere e proprie chicche enologiche.

Quale momento migliore per degustarlo, se non in compagnia dell’amico William, francese di nascita, cultore delle bollicine ed italiano d’adozione da oltre 30 anni. L’occasione, un sabato sera, allietato dalla sua raffinata cucina (chef mancato) e da altre bottiglie di gran valore.

Ma veniamo alla degustazione di questa bottiglia di Champagne Gènese 1985 di 12,0° vol., stappata e servita in ampio balloon, alla stregua di un grande vino rosso, alla temperatura di 10/12°.

E’ davvero un’emozione difficile da spiegare a parole già nel versarlo e il fluire lentamente all’interno del bicchiere, attraversa come se stessimo viaggiando alla velocità della luce, un tempo di ben 38 anni in pochi secondi, che si dissolvono come la presa di spuma, ancora presente, ma non più vigorosa come un tempo. Il colore è qualcosa di estremamente affascinante e sensuale difficilmente riconducibile ad un classico  champagne, visto che si presenta con una cromia figlia di un mix di rosè e ambra chiara. Un finissimo perlage elegante e persistente al centro del bicchiere dimostra che l’anidride carbonica è ancora presente e che la qualità sia sicuramente di pregio. 

Personalmente trovo l’analisi olfattiva degli champagne, la più difficile in campo enologico, soprattutto se mi ritrovo dinanzi uno così vintage. 

Dobbiamo fare un distinguo su sensazioni immediate a 10/12 gradi e successive con una temperatura più elevata sino ai 15 gradi; nel primo caso ho avvertito sentori di fiori d’arancio, lampone, ginger, crema di nocciola e caramello. Nel secondo sono emersi alla ribalta, la pesca, la mela cotogna e sul finale la frutta disidrata (fichi).

In bocca ti stupisce per due componenti ben in evidenza, la freschezza e l’acidità, mai ruvida, ma calibratissima in una scorrevolezza di beva che fa invidia a tanti altri champagne decisamente più giovani. I rimandi olfattivi sono ben coerenti con quelli gustativi, in una beva piacevolissima, conciliante e da assaporare lentamente, conversando e meditando sul tempo e sulla vita.

Un vino che può non incarnare più i dettami principali di uno champagne, ma che rappresenta l’archetipo di un’esperienza assolutamente irripetibile nel percorso enologico di un appassionato.

Non so se a tutto ciò abbia contribuito il fato o il destino, ma visto che il fato governa ogni cosa, allora gioiosamente "mi rassegno" ad esperienze di questo genere, sperando ce ne possano essere di nuove ed ancora più incredibili.