Recentemente, in una pausa di lavoro, con un collega coetaneo abbiamo ricordato alcune vicende occorse in un anno davvero speciale delle nostre vite: quello del militare. Io, Alpino a Merano nel V° Battaglione Edolo, lui, carrista ad Udine. Il Trentino Alto-Adige ed il Friuli, due regioni di confine che nella storia sono stato teatro di sanguinose battaglie e allo stesso tempo due regioni che danno i natali a zone illustri e vocate nella produzione di vini, in special modo i bianchi, senza però disdegnare i rossi, di gran valore. Si ragionava insieme, in un misto di nostalgica fierezza per il tempo andato, ma anche per le esperienze vissute, con il rammarico di una gioventù passata ma anche per il fatto che, forse, per ritemprare le forze, avrebbero potuto consentirci almeno un bicchiere di vino al giorno. Quel vino che nel corso dei secoli ha assunto un ruolo importante nell’alimentazione delle truppe, in parte come corroborante energetico, in parte come vera e propria gioia in contrapposizione alle brutture della guerra.

Se partiamo dagli antichi romani, si concedeva al soldato solo acqua mescolata all'aceto, per il suo potere disinfettante e rinfrescante, questa veniva chiamata "posca", che in età imperiale prese il nome di "acetum": nello stesso periodo, tuttavia fu permesso l'uso del vino. I romani raramente bevevano birra, se non in territorio straniero perché considerata una bevanda povera, molto meno gradevole del vino. Il vino era raramente limpido, veniva di solito filtrato con un colino e si beveva quasi sempre allungato con acqua calda o fredda (in inverno a volte anche con neve) in modo da ridurne la gradazione alcolica che all'epoca era piuttosto alta, di solito da 15/16 a 5/6 gradi. 

Passando al medioevo, le truppe venivano sfamate con poca carne, insaporita con erbe minori, quali ad esempio il sedano di monte, molti legumi, poi pesce e del formaggio stagionato, considerato volgare dalla nobiltà, associato al consumo quotidiano di un vino leggero e poco alcolico, spesso allungato con l’acqua.

Nelle guerre napoleoniche, Il rancio tipico si componeva di un pezzo di carne lessa, trasportata nei sacchi, una pagnotta di pane, qualche decilitro di vino e (raramente) un pezzo di formaggio. Napoleone Bonaparte fu sempre molto generoso con il suo esercito al punto che Il 26 gennaio 1814, dopo avere assunto il comando di appena 36.000 uomini e 136 cannoni a Vitry-le-François, ordinò al maresciallo Berthier di distribuire 300.000 bottiglie di Champagne e brandy alle truppe. «Champagne: nella vittoria un merito, nella sconfitta una necessità» sembra ripetesse sempre Bonaparte, con enorme gaudio del suo esercito.

Forse, non lo era da meno anche l’esercito sabaudo e più precisamente il reggimento "Cacciatori Guardie" che era stato costituito il 13 luglio 1744 dal patrizio sardo don Bernardino Antonio Genovese, duca di San Pietro, e incorporato nell'esercito piemontese col nome di "Reggimento di Sardegna", che durante il periodo napoleonico era rimasto l'unico a disposizione di casa Savoia, perché sfuggito allo scioglimento, grazie alla sua dislocazione in Sardegna. Un suo fante, viene raffigurato sull’etichetta storica del Langhe Nebbiolo “Ochetti”, ideata da Renato Ratti per ricordare le gesta dei reggimenti piemontesi del XVIII secolo. 

Che sia stato il vino consumato dalle truppe dei Cacciatori? E’ più che probabile; sta di fatto che questo vino nasce in una delle aree vitivinicole più vocate del Roero, dove la Cantina Ratti è proprietaria di parcelle con una splendida esposizione e che, con questa etichetta sconfessa la tanto vituperata considerazione di un nebbiolo fratello minore di quello più famoso e blasonato langarolo. Superfluo ricordare che Renato Ratti fu enologo, scrittore, storico, comunicatore, confermandosi come uno dei principali artefici della rivoluzione culturale e tecnica del mondo del vino italiano e piemontese.

Pertanto, in suo onore ed in onore di tutti i Cacciatori Guardie, caduti per la libertà, mi accingo a degustare il Langhe Nebbiolo “Ochetti” annata 2021 di 14,0° vol. stappato in una giornata uggiosa che il poeta e scrittore Cesare Pavese, piemontese e langarolo doc avrebbe sintetizzato come: “…ancora cadrà la pioggia sui tuoi dolci selciati, una pioggia leggera come un alito o un passo…” e che si presenta nel bicchiere di un bel colore rosso rubino chiaro, al punto da confondersi alla cieca con un Pinot Noir, limpido ed uniforme su tutta la superficie.

Al naso, un iniziale ed inconfondibile profumo di rosa, lascia ben presto il sopravvento a chiare matrici fruttate di ciliegia, amarena e frutti di bosco ed a seguire sensazioni di spezie dolci, di cannella e sul finale nuances di tè nero.

In bocca, nonostante emerga tutta la gioventù dell’annata e una scorrevolezza e facilità di beva, si dimostra un vino non banale, dotato di un complesso corollario gustativo degno di nota, dove i rimandi fruttati avvertiti all’olfatto, esplodono letteralmente nell’intero arco palatale. Un accenno tannico in dissolvenza, una mineralità ben integrata e con uno slancio sapido in chiusura di beva. Persistente quanto basta e con un’alcolicità mai invadente. Un vino da bere ora, ma che può rimanere in cantina ancora per qualche anno per un affinamento nella sua terziarietà. 

Un rosso roerino che non tradisce le attese e soprattutto conferma la reputazione dei vini della cantina Ratti, risultando un vino decisamente gastronomico, in un ampio ventaglio eterogeneo di abbinamenti.

In sintesi, se fosse stato somministrato all’esercito sabaudo e, magari un’ ombretta  giornaliera nel mio anno dolomitico, oltre a ritemprare le forze, avrebbe rallegrato le fatiche di una vita militare.