Il giorno dopo questa memorabile serata torinese, che ha segnato una decisa svolta enologica, mi è subentrato a livello di inconscio quel fenomeno noto come effetto di contrasto dove, finito il momento speciale, ho teso a paragonare la quotidianità a ciò che avevo appena vissuto.

Per combattere questo senso di depressione del giorno dopo, ho deciso di raccontarvi la verità. Tutta la verità.  

Sono un viaggiatore del tempo.

Nelle precedenti recensioni, più di una volta ho confessato che se avessi avuto una macchina del tempo mi sarebbe piaciuto tornare a ritroso nel periodo storico che più mi affascina, vale a dire il medioevo. Chi mi conosce bene, sa che la mia patria enologica è in Francia e più precisamente in Borgogna e il vitigno che prediligo da sempre è il Pinot Noir.

Evidentemente nelle mie recensioni ho fatto allusioni temporali ma non mi sono mai spinto a dirvi quanto segue…..

Ebbene sì!! Ho viaggiato nel tempo, catapultandomi nell’anno Domini 1395, alla corte di Philippe de France, duca di Borgogna dal 1363 al 1404, noto come “Philippe le Hardi”, quarto e ultimo figlio del re Jean II di Francia,

Carpirne la fiducia è stato semplice, grazie alla tecnologia in mio possesso e ancor di più convincerlo a promulgare l’editto che stabiliva in tutta la Borgogna la completa espiantazione dell’uva Gamay, che lui stesso definiva rustica e villica, in favore del mio amato Pinot Noir. Un vitigno, il Gamay, che fece la sua prima comparsa nel villaggio di Gamay, a sud di Beaune nel 1360 e già all’epoca aveva rese significativamente maggiori rispetto al Pinot Noir ed era più facile da coltivare. Fortuna vuole, che sessant’anni dopo l’editto, Filippo il Buono ne emanò un altro contro il  Gamay in cui affermava che il motivo del divieto è che "I duchi di Borgogna sono conosciuti come i signori dei migliori vini della cristianità. Manterremo la nostra reputazione confermando l’editto di Philippe le Hardi”.

Il seguito della storia la si conosce bene ed il Gamay, relegato nella zona più a sud della Borgogna, sotto il Maconnais, ha conosciuto il suo periodo qualitativamente più buio negli anni ottanta del secolo scorso, dove l’appellation divenne sinonimo di Beaujolais Nouveau, legando il proprio nome in modo indissolubile al vino novello di Francia, commercializzato il terzo giovedì di novembre in tutto il mondo. E’ pur vero che per anni è stato un fenomeno di marketing pazzesco, capace di muovere più di 50 milioni di bottiglie, ottenute con macerazione carbonica e con l’aggiunta di aromi chimici che accentuavano un certo sapore di caramella inglese o di banana e addirittura, negli ultimi anni la pratica più in voga è quella di riscaldare i tini artificialmente per sviluppare aromi di ribes nero che si trovano naturalmente nell’uva. Sta di fatto che la produzione negli ultimi anni è sensibilmente in discesa, grazie alla lungimiranza di alcuni vignerons che nello stesso periodo di massimo splendore del Beaujolais Nouveau, cercarono di valorizzare l’uva Gamay, abbandonando completamente la chimica, votandosi esclusivamente a metodi naturali, biologici e biodinamici a salvaguardia delle viti e del consumatore finale. Sotto l’impulso di Jules Chauvet, noto ricercatore ed enologo che iniziò a vinificare senza l’aggiunta di SO2, utilizzando lieviti selezionati e coltivando le sue viti in biologico, ben presto si accodarono altri vignerons illustri come Marcel Lapierre e Guy Breton che diffusero il verbo, con l’intenzione di dimostrare che il Gamay non è il classico vino novello, ma è un vitigno che dà origine a vini strutturati, minerali e con una gran bella propensione alla longevità.

Sulla scia di queste affermazioni, non più tardi di un mese e mezzo fa, il mio caro amico Emanuele Spagnuolo, fondatore e proprietario dell’Enoteca Grandi Bottiglie (www.grandibottiglie.com) di Torino, mi ha sollecitato a partecipare ad una serata di degustazione vini del Beaujolais, alla quale ho accettato di buon grado, in compagnia dell’amico Roberto, non avvezzo ai vini francesi ed in procinto di dare l’esame Ais per diventare sommelier, sapendo che quanto saremmo andati a degustare sarebbe stato di prima qualità, così come i produttori selezionati. 

E’ bene precisare che il Beaujolais consta di ben 10 denominazioni e posso solo immaginare la difficoltà nello stilare un programma di bottiglie che potessero quantomeno comprendere le migliori appellation. Mi sono permesso, previa autorizzazione di Emanuele, di portare una bottiglia della Cote de Brouilly che mancava nella lista e che a parer mio potesse racchiudere in sé sia qualità, ma anche una sostanziale differenza rispetto a tutte le altre. Accontentato, con onore.

La sera, in un’atmosfera quasi magica e con un parterre di ospiti appassionati e qualificati è andata in scena una delle migliori serate di degustazione alla quale abbia partecipato, al pari di un’altra memorabile trascorsa ben 5 anni fa e sempre con lo stesso padrone di casa, relativamente ai vini del Domaine Leroy, ma questa è un’altra storia. 

Con una lunga tavola imbandita di bicchieri di degustazione, pane di diverso tipo, 2 tipi di salumi nostrani e del formaggio di ottima fattura, si sono aperte le danze con l’incedere cadenzato, puntuale e preciso di Ilva (compagna di Emanuele) nel servire con leggiadra maestria i vini in degustazione.

Cominciamo con il Beaujolais Village 2017, versione Magnum della Maison en Belles Lies di 12,5°vol., il cui produttore Pierre Fenals, esperto di biodinamica produce tutti i suoi vini senza solforosa aggiunta.

Si presenta di color rosso rubino mediamente carico, con riflessi più tenui sull’unghia. Al naso è leggermente vinoso con prevalenza di frutta rossa non troppo matura; in bocca si avvertono sensazioni carnose e una certa croccantezza. Poca corrispondenza naso/bocca, dove al naso il vino risulta leggero, mentre la bocca denota una certa rusticità ed un tannino ancora da levigare, che però non infastidisce. 

L’ho considerato un vero e proprio entry-level della serata, una sorta di marchio di fabbrica per identificare che tipo di vitigno sia il Gamay a livello gusto-olfattivo in un vino per certi versi basico.

Viriamo al secondo vino in scaletta e precisamente al Beaujolais Les Tours rouge 2018 di Justin Dutraive di 14,5°vol. 

Figlio del più noto Jean Louis Dutraive, alleva vino seguendo i dettami di Steiner e della biodinamica e quanto in degustazione si presenta visivamente di un bel colore rosso rubino carico al centro del bicchiere, mentre sull’unghia si schiarisce notevolmente.

Al naso è decisamente fruttato con in evidenza lamponi e ciliegie mature, che lasciano il passo a sentori floreali ed accenni di erbe della macchia mediterranea. La bocca è attraversata da una voluttuosa vena di dolcezza che tende alla liquirizia, con accenni balsamici e quasi medicamentosi. Mineralità a go-go e sul finale una bella nota di sapidità che lo rende ulteriormente intrigante, quasi ruffiano. Un vino decisamente femminile ed a tratti elegante, ma che a parer mio, nonostante la non stucchevolezza della sensazione dolciastra, alla lunga può stancare. 

Terzo vino in rassegna il Beaujolais Madame Placard 2017 di Yvon Metras di soli 12,0° vol. Yvon Metras è senza dubbio uno dei vignerons più talentuosi e riconosciuti dell’intera regione che si è ispirato nelle sue creazioni a due mostri sacri come Jules Chauvet e Pierre Overnoy (Jura). Autentico Totem per quanto concerne la produzione dell’appellation Fleurie. 

Si presenta di un colore rubino scarico, quasi trasparente e decisamente torbido, segno di nessun passaggio di filtrazione.

Al naso, si avverte un iniziale sentore fruttato di ciliegia ed immediatamente poi una caratteristica arancia amara. A seguire un tocco vegetale di erbe aromatiche e un non so che di stallatico, ma non in senso dispregiativo.

In bocca, risulta un po’ sporco, ma nell’accezione di ruspante, maschile e muscolare, leggermente pungente sulla lingua, ma con una bella profondità, struttura e molta mineralità. Un vino ben fatto, apparentemente semplice e che entusiasma per la sua naturalità.

Emanuele, da professionista del settore, ha centrato la giusta sequenza dei vini in un crescendo di sensazioni che iniziano ad esaltare le qualità dell’uva Gamay.

Il prossimo vino in scaletta è il vino del cuore del padrone di casa e precisamente il Beaujolais Cuvèe Jules Chauvet versione Magnum 2016 – di Robert Denogent di 13,3°vol. 

Si sono spesi fiumi di parole per magnificare la figura di Jules Chauvet, carismatico e pioniere del vino naturale nel Beaujolais, al quale il Domaine Denogent ha dedicato questa gran bella cuvèe. Domaine da me recensito con il loro Macon village “les Sardines” e che mi appresto a dedicare alcune impressioni degustative. 

Color rubino scarico, prodotto da vigne vecchie, è sorprendentemente profumato con vivaci note fruttate di frutti rossi, sui quali spiccano i frutti di bosco, la ciliegia e il lampone e da note floreali. Un vino che ho aspettato e roteato più volte nel bicchiere perché ogni volta le sensazioni olfattive mutavano, virando su accenni di liquirizia e su terziarietà di sottobosco e cuoio. Al palato è davvero morbido, quasi setoso, fresco, cristallino e con una bella sensazione di pulizia; decisamente minerale, con una media acidità e sul finale un bel mix di sapidità alternata a sottili speziature e con una bella persistenza aromatica su di un retrogusto di caramella zuccherosa.

Un vino da berne a secchiate con la bottiglia che svanisce in un nanosecondo.

Non ci fermiamo ed attendiamo che Ilva ci serva la bottiglia aggiunta dal sottoscritto e stiamo parlando del Chateau-Thivin Cote de Brouilly cuvèe Zaccharie 2017 di 13,5°vol. Siamo nell’estremo sud del Beaujolais in una zona con terroir prettamente vulcanico, dove la fanno da padrone le “pierres blu” , le pietre blu, microdioriti appartenenti alla famiglia dei graniti che conferiscono al vino una lunghissima e quasi esasperata mineralità speziata. Questa cuvèe, il top di gamma della famiglia Geoffray, proprietari di Chateau Thivin dal 1877 è un assemblaggio di 2 cru, il primo, La Chapelle posto sulla sommità del Mont Brouilly a 450 metri slm, mentre il secondo, Godefroy posto ai piedi del monte e con viti ultracentenarie.

Vino che nel calice si presenta di un rosso rubino profondo su tutta la superficie. Al naso frutti neri, in particolare mirtillo e mora, con effluvi pepati e leggermente fumosi, tali da renderlo atipico per un Beaujolais, dove, alla cieca il naso avrebbe richiamato i vini del Rodano settentrionale ed allo stesso tempo la presenza olfattiva di frutta più scura lo si potrebbe associare tranquillamente ad un Syrah. Al palato, la frutta si ripresenta e si avverte una leggera tannicità in un contesto minerale davvero accentuato e con un accenno speziato che emerge su di un finale persistentemente lungo. Un vino potente e muscolare che ha davanti ancora tanta strada prima di raggiungere la sua vetta apicale.

Si prosegue con un vigneron e un vino iconico, nell’assaggio del Fleurie Le Clos Cuvèe Vieilles Vignes 2019 di Jean Louis Dutraive di 13,5°vol. 

Padre di Justin e proprietario delle vigne più antiche di Fleurie, Jean Louis Dutraive è da sempre grande sostenitore della viticoltura biologica con certificazione Ecocert dal 2009. I suoi vini danno prova di ciò, come questo Fleurie da vigne vecchie, che si presenta di color rubino pallido, con leggere velature e con un naso intrigante a cominciare da frutta rossa e nera, fragoline di bosco, ciliegie mature, mirtilli ed a seguire arancia amara e rabarbaro.

Roteato nel bicchiere sprigiona sentori terrosi, di sottobosco e leggermente speziati.

Al palato, ha dalla sua una decisa verticalità ed un’acidità quasi scolastica con una corrispondenza gusto-olfattiva coerente. E’ intenso ma leggero allo stesso tempo. Un vino di sicuro non al suo apice ma ha ancora davanti tanta strada.

Il tempo passa troppo velocemente quando sei felice e condividi qualcosa di davvero speciale e pertanto si continua con un altro Fleurie e più precisamente il Fleurie Magnum 2019 di Yvon Metras di 13,0°vol.

Quando si dice che il vino va pazientemente aspettato, questo ne è di sicuro il fulgido esempio. 

Rubino chiaro, troppo giovane con un naso davvero chiuso e impalpabile; ha una potenza tale che sembra debba esplodere da un momento all’altro, ma non ha lo spunto per manifestarsi a livello olfattivo. Nonostante ciò è impossibile non intravedere un enorme potenzialità di evoluzione gusto-olfattiva, ma ha davvero bisogno di molto tempo ancora e malgrado ciò, in bocca è decisamente lungo e persistente. Un vino che dopo un’ora dall’assaggio ed ancora chiuso a livello olfattivo se non per un accenno di gessosità, si è mostrato al palato decisamente più snello e disinvolto. E’ stata una sorta di infanticidio aprire questa Magnum, ma nel consesso della platea partecipante è stato un atto dovuto. 

Ci dirigiamo, con grande entusiasmo verso il finale di questa stupenda serata, con gli ultimi tre vini in programma cominciando dal Morgon 3.14 2013 di Jean Foillard di 12,5 ° vol. 

Il Morgon Cuvée 3.14 è un vino naturale prodotto da Jean Foillard con uve Gamay provenienti da vecchie viti dalla Côte de Py, su un terreno composto prevalentemente da scisti e manganese. Il Domaine Jean Foillard segue i principi dell'agricoltura biodinamica, per cui in vigna non vengono utilizzati prodotti chimici e l'intervento umano è ridotto al minimo indispensabile.

Vino che si presenta di un rubino velato ed al naso frutta rossa di ciliegie, fragolina selvatica ed a seguire note vegetali di cardo. 

In bocca, si ripresenta la frutta unita ad accenni terrosi e fungini e a parer mio c’è grande materia, con una fitta e stretta tessitura; un vino che parla di freddo come l’annata in cui è stato prodotto, con grandissima potenzialità, ma ancora un po’ indietro, restio a scoprirsi fino in fondo. Un altro vino che si fa attendere e che è obbligo aspettare almeno altri 5 anni per potersi valorizzare al meglio. 

Non demordiamo, andiamo ancora avanti nell’assaggio del Fleurie Chapelle des bois 2010- Jules Desjourneys di 12,8° vol. 

E’ obbligo sottolineare che nel Beaujolais sia diventato davvero difficile reperire le vecchie annate e poterne degustare due del 2010 diventa un privilegio assoluto. Parliamo di un'azienda vinicola guidata da Fabien Duperray che conta 7 ettari di Gamay a Fleurie e Moulin a Vent, più 10 ettari di vigneti a bacca bianca condivisi con un altro viticoltore del Maconnais e che ha la particolarità di essere molto vicina alle tecniche di vinificazione e affinamento usate nella Cote d’Or. 

Versato nel bicchiere da degustazione si presenta di color rubino carico; al naso accennì floreali di violetta di campo ed a seguire frutta rossa matura di amarena e ribes oltre ad effluvi affumicati e leggere tostature di legno. In bocca è fresco, pulito e con un tannino che deve ancora ammorbidirsi. La sensazione strana è che sia un vino estremamente giovane nonostante si parli di un 2010 e quindi con ben 13 anni sulle spalle. Da ristappare, minimo tra 5/8 anni. 

Ultimo, ma non ultimo il Moulin a Vent Les Michelons 2010 – Jules Desjourneys di 12,8°vol.

Un altro vino davvero giovane che può tranquillamente invecchiare per altri 5/10 anni e che si presenta visivamente di un bel rosso rubino carico e con in bella evidenza un naso di matrice fruttata di prugna, ciliegia e mirtillo.

Anche qui si avverte una leggerissima nota di tostatura di legno con una lieve punta tannica; in bocca è fresco, ha una densità quasi croccante, con una bella profondità e una beva snella, ma ha nella sua giovinezza un limite che verrà colmato sapendolo attendere con molta pazienza.

La degustazione termina qui, ma lascia davvero più di un punto di riflessione. I vini che personalmente ho preferito  sono stati (non in sequenza) il Beaujolais Cuvèe Jules Chauvet perché l’ho trovato complicatamente semplice; il Morgon 3.14 2013 di Jean Foillard perché è stato il vino più introspettivo della serata e poi perché il PI Greco disegnato in etichetta ha di certo un significato esoterico, quello di rappresentare una porta, un sorta di stargate che permette al degustatore di entrare in un’altra dimensione, quasi onirica, che non ha nulla a che vedere con la nostra tridimensionalità, bensì è l’accesso ad una quarta dimensione dove subentra lo spazio-tempo e la taumaturgia di questo vino; ed infine il Fleurie Le Clos Cuvèe Vieilles Vignes 2019 di Jean Louis Dutraive, forse quello che ha fatto emergere l’estrema naturalità del vino in un corollario gusto-olfattivo di tutto rispetto. 

Ma non solo. 

E’ emerso dalle degustazioni e dalle parole di Emanuele, che i vini del Beaujolais, sono di innegabile altissima qualità e probabilmente rappresentano la nuova frontiera vinicola transalpina ed internazionale e che, ancora e forse per poco, calmierati nei prezzi decisamente umani rispetto ai più blasonati Pinot Noir borgognoni, che oramai spuntano cifre altamente speculative e non più abbordabili per gli appassionati come me. 

I vini degustati delle annate 2010 e 2013 sono la prova provata di quanto possano ancora evolvere, rappresentando, allo stato attuale, una condizione giovanile imbarazzante. 

Gran bella serata!!!

Il tempo di salutare la compagnia e poi, soddisfatti io ed il mio amico rientriamo in Hotel per trascorrere la notte, per poi rientrare l’indomani alle nostre abitazioni, ma durante il cammino di rientro mi frullano in testa alcune domande.

Perché Emanuele ha insistito nell’aprire alcune bottiglie decisamente non pronte e mi riferisco alle annate 2013 e 2010? Come mai tutto questo entusiasmo per una regione, il Beaujolais, che non se la fila nessuno?

E se anche Emanuele fosse un viaggiatore del tempo? Se fosse andato nel futuro e ci stesse sublimando il messaggio di andare ora a far visita nel Beaujolais per fare incetta di bottiglie che diventeranno oro nei prossimi anni?

Io, per non saper né leggere né scrivere, a settembre una capatina la faccio di sicuro e la prossima volta che farò visita ad Emanuele mi accerterò se nel suo garage è parcheggiata una DeLorean…..

Voi, che state leggendo, fate un po’come vi pare.

Alla prossima……