Da appassionato di Storia, non posso esimermi dall’approfondire quella relativa al vino ed alla sua evoluzione ed al ruolo fondamentale che l’antica Roma ha avuto nella trasmissione della viticoltura nell’attuale Europa; essi portarono la vite in Provenza, nel nord della Francia, in Germania, sul Reno e sulla Mosella, ma allo stesso tempo non possiamo dimenticarci del fatto che prima di allora, furono i Greci a portare la viticoltura in Italia.

Il nostro stivale è disseminato di miriadi di uve autoctone, ma anche di quelle importate anticamente; una di queste è rappresentata dell’ambasciatore dei vini liguri, ovvero il Pigato.

Gli storici sostengono che il Pigato giunse in Liguria dalla Grecia nel medioevo, probabilmente da una delle colonie genovesi nell’Egeo. Studi personali mi spingono a pensare che potrebbe discendere dall’uva greca Assyrtiko coltivata prettamente nell’isola di Santorini ex colonia veneziana e genovese al tempo delle Repubbliche marinare e che mostrano diverse similitudini a cominciare dall’aspetto visivo, dalla cromatura, dal fatto che entrambi siano resistenti alla fillossera, all’oidio e alla peronospera e che dal punto di vista ampelografico abbiano una foglia di media grandezza, pentagonale con un grappolo di grandezza media, compatto, a volte alato. 

Il nome Pigato, deriverebbe dal latino picatus, ovvero impeciato, termine che ricondurrebbe alle piccole macchie presenti sulla buccia bianca degli acini. Qualcuno sostiene che le prime tracce del Pigato siano più recenti, intorno all’anno 1635, quando un appassionato del territorio di Albenga, importò a Campochiesa il primo dei vitigni appartenente al gruppo dei cosiddetti “Grechi” e nel descrivere il vitigno, affermò che nei luoghi di provenienza, gli acini giunti a maturazione, si pigmentavano di color marrone dando vite al fenomeno delle “uve pigate”. Questo fenomeno della maculazione si forma secondo caratteristiche variabili che variano da zona a zona a seconda dell’esposizione solare, della mineralità ed umidità del terreno.

Da qui in poi, il vitigno Pigato sembrerebbe scomparire, visto che Gilbert Chabrol, dal 31 gennaio 1806 al 23 dicembre 1812 prefetto dell’amministrazione napoleonica nel dipartimento di Montenotte, diviso fra la Liguria di ponente ed il basso Piemonte, con Savona capoluogo, non lo menziona nell’accurata indagine sull’agricoltura della Riviera, commissionata da Napoleone Bonaparte. 

Per ritrovarne le tracce, dobbiamo andare avanti di una ventina d’anni, quando nel 1830 l’arciprete Francesco Gagliolo impiantò ad Ortovero (SV) il vitigno, per poi passare direttamente al 1925 (III dell’era fascista), quando il podestà di Arnasco, Vendone ed Onzo (territorio savonese) pubblicò un libricino di storielle frutto di fantasia, nel quale si fa riferimento al vino “Campochiesa bianco”, che per la descrizione fatta nel suo racconto recita quanto segue:”…col suo magnifico splendore giallo dorato che costituiva uno dei suoi migliori pregi,” Il Pigato!!, ma fu solo a partire dal 1950 che iniziò ad essere messo in vendita, precisamente dal vignaiolo Rodolfo Gaggino al prezzo di 300 lire la bottiglia ( esiste ancora oggi un’azienda agricola Gaggino ad Ortovero, che coltiva uva ma non è dato sapere se siano imparentati col Rodolfo). 

Arrivando ai giorni nostri, ad Albenga, frazione Salea, quasi a perpetuare questa visione un po’ nebulosa e in parte misteriosa di quest’uva, ha sede l’azienda vinicola Rocche del Gatto, il cui proprietario, Fausto de Andreis, viene epitetato come l’”anarchico del Pigato” perché con i suoi vini fa semplicemente ciò che vuole con una passione ed un amore disarmante. Questo vignaiolo dà vita a un vino prodotto secondo i criteri di un tempo, non abbandonandosi dietro le mode del momento e comunque in abbinamento all’aiuto tecnologico, non invasivo, rispettando la tradizione e soprattutto perseguendo la filosofia di non produrre vini immediati, per poter accaparrarsi il mercato e che perdono le caratteristiche tipiche di questa varietà, ma bensì bianchi volti ad una longeva evoluzione temporale. Fermentazione alcolica di c.ca due settimane con macerazioni sulle bucce; temperature controllate intorno ai 17° gradi, a seguire la malolattica e prima dell’imbottigliamento utilizzo di solfiti, massimo 40 mg./l; tutte le lavorazioni sono svolte in vasche d’acciaio e la produzione annua si aggira intorno alle 50.000 bottiglie. 

Un Pigato davvero senza tempo ed impressionante nella sua longevità come confermato dalla degustazione dello Spigau Crociata annata 2006 di 13,5°vol. “Spigau” è il nome dialettale del Pigato, la “S” è anteposta come una negazione, sempre dialettale, dato che per la sua particolare lavorazione non ha mai avuto il riconoscimento della Doc, ma allo stesso tempo è diventato una sorta di marchio di fabbrica che identifica il Pigato di Rocche del Gatto. 

Si presenta di un bellissimo color ambra baltica, limpido e brillante senza sbavature; al naso, un iniziale sentore fruttato di albicocca e pesca matura, lascia ben presto spazio a sensazioni erbacee di macchia mediterranea, timo, maggiorana e menta. Aspettato ulteriormente e roteato nell’ampio balloon da degustazione sprigiona caratteristici effluvi idrocarburici degni dei migliori riesling della Mosella, per poi virare su note balsamiche e sul finale emerge una piacevole sensazione mielata. 

In bocca entra con estrema pulizia al palato, ma soprattutto con una decisa verticalità; sorretto da una spalla acida graffiante e da una mineralità sugli scudi, dove la corrispondenza naso/bocca è di tutto rispetto ed il finale è davvero persistente e con un elegante retrogusto mandorlato. 

Quello che stupisce è la freschezza e la sensazione giovanile di un bianco che ha 17 anni sulle spalle, che non da segni di ossidazione e che fa riflettere su quali siano i suoi effettivi limiti temporali. Un elogio alla longevità, una sorta di elisir di immortale giovinezza che solo un eretico del vino poteva creare. 

Ultimo, ma non ultimo il rapporto qualità/prezzo da vero guinness. Da provare assolutamente!!!










.