E’ una domenica come tante, ma il tempo perturbato la rende crepuscolare e a tratti intimamente introspettiva. Assorto nei miei pensieri sposto a più riprese le tende del soggiorno di casa rimanendo a guardare le gocce di pioggia che cadono veloci sui vetri, seguendole con lo sguardo per scoprire il loro destino. Chi esegue brevi percorsi, chi si incontra con altre gocce ingrossandosi, chi, tra mille peripezie le scansa, ma inevitabilmente finisce la corsa al bordo estremo della finestra.

Per similitudine, In quegli istanti ho pensato alla caducità dell’uomo ed alla sua esistenza, ma allo stesso tempo al sentimento più puro, che è l’amore, che riesce a vincere qualsiasi avversità. 

Inevitabile a quel punto andare a riascoltarmi il singolo degli Who estratto dall’album Quadrophenia del 1973, quel capolavoro musicale che ha per nome “Love, Reign O’er me”, estremamente attinente con i miei pensieri, dove un superlativo Roger Daltrey ad un certo punto grida: “Oh God, I need a drink of cool cool rain!, dove la pioggia rigeneratrice e purificante è assimilata all’amore, l’unica cosa che veramente ha un senso, l’unica forza in grado di  renderci unici, l’amore puro e incondizionato per un sentimento o per una passione, come quella che nutro per il vino e per il mondo che lo circonda. 

Jimmy 

Quel grido è quello di Jimmy, il protagonista del film tratto dall’omonimo album, che ha bisogno di quell’amore che cade come pioggia su di lui, lo vuole bere fino a riempirsene e per taluni versi è il sentimento che mi assale sovente, perché anch’io, come lui, ho bisogno di riempirmi continuamente di questa passione diventata vitale. 

Ecco perché, un po’ presuntuosamente, il mio non è un semplice degustare, ma è un piacevole e indispensabile riempimento di storia, cultura, fatica contadina, amore per la terra e per i frutti che sa donare; ecco perché il vino nel bicchiere è solo l’atto finale di un meraviglioso percorso.

Animato da queste autentiche ed uniche sensazioni, volgo lo sguardo verso il vino protagonista del mio assaggio domenicale il Trebbiano di Soave I.g.t. “Massifitti” dell’Azienda vinicola Suavia annata 2015 di 12,5°vol. 

La particolarità di questo Soave è data dal fatto che sia ottenuto con uve Trebbiano di Soave 100% in purezza, vitigno che, nel corso dei secoli, è stato soppiantato dalla Garganega e che si era dimenticato nei meandri della storia. Le tre sorelle Tessari, Meri, Valentina ed Alessandra, proprietarie dell’Azienda vinicola Suavia (che ho avuto il piacere di conoscere) l’hanno riportato in auge, riconoscendone la paternità ad un vino che arrivò ad essere definito “ l’eminente Classico vino bianco d’Italia”. Il Trebbiano di Soave è coltivato da secoli nelle provincie di Verona, Brescia, Mantova, con un baricentro lungo le sponde meridionali del Garda e a Vicenza (Colli Berici) con diversi biotipi e denominazioni (Torbiano, Trebbiano, Turbiana). Addirittura, qualcuno sostiene, fondandosi su basi storiche, che agricoltori veronesi nel 1400 migrarono nelle Marche, a seguito di periodi di pestilenza, portando con loro barbatelle di Trebbiano di Soave, dando vita nel tempo al Verdicchio, che, pur avendo ugual identità genetica, si differenzia per un diverso terroir. A sostegno di questa tesi il libro “Storia della Marca Trevigiana e Veronese” di Gianbattista Verci, del 1791 che riporta l’avvento della peste a Venezia nel 1400, propagatasi nei territori limitrofi e l’indicazione della popolazione veronese ridottasi a 14.800 abitanti nel 1409, quando bisognerà attendere almeno la metà del XVI° secolo per ripopolarla superando la soglia dei 40.000.

Affascinanti sono anche le origini della cittadina che ha dato il nome al vino e diverse sono le opinioni degli storici che hanno tentato di svelarne il significato etimologico più autentico. La più accreditata è senza dubbio quella secondo cui il nome di Soave derivi dagli Svevi, popolo teutonico che calò in Italia con il Re Alboino. Paolo Diacono (pseudonimo di Paul Warnefried), monaco cristiano vissuto nell’VIII° secolo d.C., storico e scrittore longobardo, nella sua Historia Langobardorumci dice che Soave derivi da Suaves, ovvero dagli Svevi, popolazione che durante le invasioni barbariche si stanziò nel territorio veronese e che venne sottomesso dai Longobardi. Una bolla di Papa Eugenio III (1145) chiama il paese Suavium ovvero terra dei Soavi (a sua volta leggibile come terra degli Svevi).

Ci sono testimonianze storiche che vertono a risaltare la tradizione vitivinicola di questo territorio, grazie ad un’epistola risalente al VI° secolo, nella quale Cassiodoro, il ministro del Re Teodorico, decantava le lodi del vino prodotto (l’Acinatico, il progenitore del Recioto di Soave) definendolo “bella bianchezza e chiara purità, tanto che si crederebbe nato da gigli”, descrivendolo come “soavissimo e corposo, dotato di gioviale candidezza e soavità”.
 Può essere che Soave derivi anche da questa descrizione. 

L’azienda Suavia è situata a Fittà, frazione del Comune di Soave, nonché incantevole borgo incastonato fra colline di origine vulcanica, composte da rocce basaltiche compatte. Così come riportato nel retro etichetta, il nome di questo antico borgo deriva dal latino fictus (conficcato) e si riferisce ai fitti massi di basalto colonnario che si trovano naturalmente accostati ed infissi nel terreno. Meri, durante la visita, mi confessa che il vino in degustazione è stato chiamato Massifitti perché quando è stato impiantato il vigneto, nello scasso del terreno, sono state rinvenute grosse pietre molto vicine una all’altra ed è stato inevitabile associargli questo nome.


Stappato ad una temperatura che ha spaziato dai 10 ai 12 gradi, tappo non molto lungo di 4,6 cm. Compatto e sano.

Versato nell’ampio bicchiere da degustazione si presenta di un colore giallo paglierino con lievi riflessi verdolini, limpido e brillante.

Al naso, un iniziale sentore tipicamente agrumato che spazia dal cedro, al mandarino ed alla polpa di pesca bianca, lascia spazio col tempo a sensazioni floreali di glicine e mughetto, per finire ad accenni di pietra bagnata. Al palato è molto attraente, partendo dal punto in cui era rimasto al naso, dove l’agrumato ritorna di prepotenza, attraversato da una vena acida ben presente, da una mineralità e da una sapidità evidente che non infastidisce, su di una trama a tratti un po’ oleosa, ma molto piacevole. E’ dotato di grande freschezza, unita ad una parziale cremosità su di un finale leggermente iodato e con un impercettibile retrogusto di mandorla dolce. Ha verticalità e si dimostra veramente interessante, con note finemente complesse su di una persistenza gustativa che rimane nel tempo ben presente in bocca.

Mi sbaglierò, ma bevuto fra un paio d’anni, saprà dare il meglio di sé e meno male che in cantina ne abbia un’altra bottiglia. 

L’azienda Suavia, nelle mie degustazioni in loco, mi ha affascinato anche con i Soave “Le rive” , il “Monte Carbonare” e soprattutto con un Recioto di Soave da berne a litri tanto è la sua piacevolezza.

Ancora immerso nelle sensazioni gustative, prendo il bicchiere e torno verso l’ampia finestra del soggiorno, sposto leggermente le tende, fuori la pioggia continua a cadere e penso che anch’io, per fortuna, I need a drink of cool cool rain!!!

The Who