Antoine de Saint-Exupèry, nato a Lione, fu uno scrittore francese del Novecento, famoso per aver composto uno dei romanzi più letti, tradotti e conosciuti di sempre, Il Piccolo Principe, un vero e proprio best seller amato dalle più disparate generazioni, dai grandi e dai più piccoli.

Io stesso ho avuto il piacere di leggermelo tutto d’un fiato in tarda età e l’ho trovato “complicatamente” semplice e coinvolgente. 

Lo scrittore, dal vissuto avventuroso e tragico allo stesso tempo, non riuscirà a beneficiare della gloria e degli onori derivanti dal romanzo, visto che durante la Seconda guerra mondiale scomparve con il suo aereo nel mar Mediterraneo; era il 1944.

“Il piccolo principe” inizia con l'incontro tra un pilota di aerei (autobiografico), precipitato nel deserto del Sahara (premonitorio), e un bambino, un principe di un asteroide lontano chiamato B-612. Su questo asteroide vivono soltanto il bambino, tre vulcani e una piccola rosa, molto vanitosa, che lui cura e ama. La storia inizia con la richiesta di un disegno (il principe aveva bisogno di una pecora per farle divorare gli arbusti di baobab cresciuti sul suo pianeta) e con il racconto del piccolo principe che, spiega al pilota, che ha conosciuto diversi personaggi strani viaggiando nello spazio…….


Tra le tante frasi divenute celebri ed oserei dire per certi versi un po’ cult, ce n’è una che mi ha colpito più delle altre:


“……ma se tu mi addomestichi la mia vita sarà illuminataConoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica.”


Passaggio fondamentale ed emblematico del libro nel dialogo tra una volpe e il piccolo principe, dove per “addomesticare” si intende creare un legame, conoscersi, dar vita ad un’amicizia indissolubile. Se penso a tutto ciò, rapportato ai giorni nostri, devo amaramente constatare che l’uomo, pur tendendo alla conoscenza, non la utilizza per creare un legame reale bensì la trasforma a piacimento per esaltare la propria immagine in un contesto virtuale. Basti pensare al proliferare dei social ed al numero di “amici” condivisi. Un contenitore standardizzato, una sorta di iscrizione obbligata per ottenere un’omologazione che ci faccia sentire accettati ed integrati, in una società dove l’apparire diventa sempre più preminente sull’essere. 

E allora, diventa sempre più difficile riconoscere la vera amicizia, ma soprattutto diventa sempre più complicato riconoscere il rumore dei passi, quelli diversi da tutti gli altri, quelli che ti fanno sentire vivo e che non puoi dimenticare……

Nella vita ci sono momenti che definisco magici, azzarderei eccezionali (sono pochi), dove per qualche istante avviene una sorta di strana congiunzione astrale, in cui un semplice ma non trascurabile dettaglio, “addomestica” qualcosa di apparentemente lontano.

Abitudinariamente il sabato pomeriggio scendo in cantina per togliere da uno dei bloc cellier la bottiglia che degusterò col pranzo domenicale e come spesso accade è la bottiglia stessa che si fa scegliere. La mia mano destra, quasi rabdomanticamente, si è posata sull’Anjou “Petit Princè” annata 2015 del Domaine de Bablut e per una frazione di secondo è echeggiato nella mia anima il rumore dei passi, diversi da tutti gli altri, di un vino che si è lasciato dolcemente “addomesticare”, probabilmente anche aiutato da quanto identificato in etichetta in assonanza con il romanzo di Saint-Esupèry.


La famiglia Daviau, proprietaria del Domaine de Bablut, alleva vite dal 1546, dove alla principale attività di mugnai, coltivavano un vigneto nei pressi di Brissac; siamo nella Loira orientale, nella zona dell’Anjou, dove lo Chenin Blanc trova un habitat naturale che si confà alle sue caratteristiche ampelografiche. Dal 1850 in poi venne abbandonata l’attività dei mulini per concentrarsi unicamente sul vino ed a giusta ragione.

Il terroir del vigneto che dà vita al Petit Princé è composto da scisto ocra, rosa o mattone con venature di quarzo; la viticoltura è prettamente biologica con esclusione assoluta di diserbanti e pesticidi sintetici. La vendemmia è manuale mediante cernita selettiva di uve molto mature; in cantina, terminata la fermentazione alcolica, il vino viene lasciato sui lieviti per conferire complessità e grassezza e l’imbottigliamento avviene dopo un affinamento di 9 mesi. Ma veniamo ora alla degustazione….

Versato nell’ampio bicchiere, questo Chenin si presenta di un bel colore oro zecchino, uniforme, limpido e brillante senza sbavature. 

Al naso emergono con immediatezza richiami di frutta tropicale, lime e papaya in evidenza ed a seguire mela renetta e pera; roteato più volte nel bicchiere emana sbuffi di pietra focaia, roccia bagnata e sul finale note vegetative e di fieno essicato.

In bocca entra con molta verticalità, con una purezza e con precisione stilistica, è fresco, leggermente salivante e a livello gustativo netti i rimandi delle componenti fruttate sentite a livello olfattivo. Mineralità e sapidità vanno a braccetto su di un corollario di vibrante acidità che fluisce in una persistenza medio-lunga. Appagante e sensuale, apparentemente di facile beva, ma strutturalmente di impatto. Un vino col quale da subito si crea un legame decisamente forte e per il rapporto qualità/prezzo (25 euro) uno dei migliori Chenin Blanc dell’Appelation Anjou che abbia degustato. 

La bottiglia si esaurisce in fretta, segno che quando il “rumore dei passi” è quello giusto, addomesticarsi diventa la cosa più semplice e naturale di questo mondo.