La Storia insegna che la botte sia il contenitore più antico utilizzato per la conservazione del vino ed ancora oggi, quel processo che va sotto il nome di affinamento, viene attuato mediante l’utilizzo di botti di dimensioni diverse a seconda di quanto le si voglia utilizzare temporalmente, relativamente al contenuto che sia relativo a un vino più o meno da invecchiare. La storia della botte risale all’antichità, come testimoniano diversi ritrovamenti archeologici oltre a numerose fonti storiche, quali ad esempio, quella dell’imperatore Giulio Cesare che nell’assedio di Marsiglia del 49 a.C. recitava quanto segue: “…..accendono barili pieni di pece e catrame e li precipitano dalla sommità del muro della galleria. Queste botti rotolano e, quando sono cadute dai lati, le spingiamo via con pali e forconi…”, o ancora Plinio il Vecchio (Libro XIV) affermò che nelle Alpi il vino era conservato in contenitori di legno circondati da cerchi. 

Datarne con esattezza l’origine per cogliere l’attimo in cui un semplice fabbricante di secchi e tini divenne bottaio, grazie al geniale concetto di curvatura, è praticamente impossibile, anche se la studiosa francese Marguerite Gagneux-Granade, che si è avvalsa di vari ritrovamenti archeologici e dei reperti conservati in svariati musei italiani , ha precisato che l’invenzione della botte non sia da attribuire agli Etruschi, così come universalmente condiviso, ma bensì nel territorio del Trentino Alto-Adige, a nord della Cisalpina, al confine con la Svizzera e l’Austria. Questa zona, corrispondente in parte all’antica Rezia, conferma l’ipotesi che la botte sia sta inventata dai Reti. Sono state identificate doghe e listelli di quercia del 500 a.C. a Bressanone; da qui il suo utilizzo si è allargato territorialmente visto che si è trovato un pozzo del V secolo in quercia e abete bianco presso Como, e una metà fossile di botte al Calvatore, a ovest di Mantova, utilizzata come involucro di pozzo databile al I secolo d.C. 

La diatriba potrebbe andare avanti ma con una certezza: la botte è stata inventata nella regione alpina ed i romani sono all’origine del suo uso su larga scala. Come sempre il genio italico nel corso dei secoli è eccelso ed ancora oggi possiamo vantare mastri bottai di primordine, e come spesso accade in gran competizione con i cugini d’oltralpe.

E parlando francese, il sottoscritto amante inguaribile della Borgogna, ha scoperto che il capostipite di una delle famiglie storiche produttrici di vino del mitico village di Chassagne Montrachet, prima di diventare un vigneron era un bravo fabbricante di botti. Mi riferisco a Jean Baptiste Pillot, antenato e fondatore di quella cantina che oggi va sotto il nome di Domaine Paul Pillot. Un’azienda con oltre 100 anni di storia iniziata proprio con Jean Baptiste, che folgorato sulla via di Damasco, decise di coltivare lui stesso il vino e ben presto venne seguito dai figli Alphonse e Henri che ampliarono decisamente la cantina e furono i primi ad imbottigliare i vini del Domaine. La consacrazione però avvenne nel 1968 con il figlio di Henri, quel Paul che oggi da il nome all’azienda, che sotto la sua reggenza acquistò a Chassagne Montrachet i vigneti premier cru Clos Saint Jean, Les Grandes Ruchottes, Les Caillerets, La Grande Montagne e a Saint Aubin Les Charmois , ponendo le basi della sua e della futura vinificazione della famiglia Pillot. 

Nel 2003, Paul è stato affiancato dal figlio Thierry, musicista mancato, rientrato all’ovile dopo essersi fatto le ossa in Sud Africa  e in Australia e in seguito da Chrystelle, entrata in cantina due anni dopo. Nel 2007, Thierry ha assunto la conduzione dell’azienda, anche se il padre, classe 1947 collabora ancora oggi con una sorta di sovraintendenza quotidiana.

Con l’avvento dei figli e soprattutto di Thierry, i vini hanno oggi un tocco di modernità unita ad una tradizione mai abbandonata, grazie ad un inevitabile aggiornamento tecnico e a una discreta quantità di legno nuovo per l’affinamento, un legno che di sicuro sarebbe piaciuto al bisnonno Jean Baptiste. 

Oggi possiedono 13 ettari vitati per 2/3 a Chardonnay ed 1/3 a Pinot Noir, ricordandoci che un tempo (fino a fine anni 70 del secolo scorso) il terroir di Chassagne era zona di elezione del Pinot Noir e che, solo a seguito di politiche di marketing, legate al mitico e confinante vigneto Montrachet, hanno ribaltato le gerarchie verso la coltivazione prevalente di Chardonnay.

Thierry è un vigneron estremamente meticoloso che si affida totalmente all’agricoltura biologica, anche se in assenza di certificazione e con eliminazione di erbicidi ed insetticidi, alla continua ricerca di quella perfezione, in una commistione di equilibrio ed energia, agevolata da un terroir argillo-calcare di gran spessore.  Il suo credo è “la valorizzazione della posizione di un vigneto” ed è per questo che non ama sentir parlare de’ “i vini di Pillot”, bensì del Clos Saint Jean o del Charmois di Pillot. 

Pur avendo nella mia cantina proprio il suo Chassagne Montrachet Premier Cru Clos Saint Jean annata 2013, ho preferito degustare l’entry-level, vero e proprio marchio di fabbrica, il Bourgogne 2015 di 12,5° vol., un “village” di un’annata oramai difficilmente reperibile sul mercato, facente parte di quella categoria di vini, i Bourgogne, che di norma, hanno un consumo ideale nell’arco di un quadriennio e che, sfidando un po’ la sorte ho degustato dopo ben 7 anni. 

Il vino proviene da un appezzamento di 0,6 ettari posizionato su una collina esposta a nord-est appena a sud di Chassagne Montrachet, per capirci a destra della route d113 a che taglia il village ; le viti hanno oltre 20 anni, le uve raccolte a mano, pigiate, lasciate decantare e poi fermentate naturalmente sui lieviti ed affinate per 12 mesi in piccoli tini di accio inox e alcuni botti per lo più vecchie (solo il 10% è legno nuovo).

Stappato un paio d’ore prima di essere servito, tappo di cm. 5 sano e ben compatto. 

Si presenta di color giallo paglierino uniforme e con una limpidezza luminosa e brillante; al naso, dopo un iniziale sentore fruttato di pesca bianca, emana matrici decisamente floreali di glicine e gelsomino ed a seguire sentori di vaniglia, per poi virare su nette note di erbe aromatiche della macchia mediterranea, in particolare salvia e maggiorana e sul finale un retrogusto accennato di mandorla dolce.

In bocca ha una piacevolezza di beva davvero invitante, è scorrevole, quasi carezzevole al palato e le papille vengono sollecitate dalla vaniglia che si ripropone a livello gustativo, in un corollario di sapidità un po’ ruffiana e in una persistenza gustativa intensa e piacevole. E’ dotato di una certa grassezza, logicamente non al pari di un premier cru di Chassagne, ma, pur essendo un entry level, ha struttura, freschezza e un retrogusto davvero raffinato.

Sembra impossibile, ma questo 2015 non è al suo apogeo e penso possa andare avanti ancora per qualche anno. Jean Baptiste, il bottaio di casa Pillot, dall’altro mondo sarebbe veramente orgoglioso del suo pronipote, che a mio avviso, reputo un vigneron da tenere in considerazione al presente e negli anni futuri. Evviva lo Chardonnay, evviva la Borgogna,,,,sempre!!!!!